Alcuni anni fa a Flavigny è stato girato un film americano, intitolato «Le chocolat».
I due attori principali erano Juliette Binoche e Johnny Depp. In questo
film, la religione cattolica veniva presentata come la religione del
sacrificio, senza amore, ed era personificata da un conte, molto
osservante, molto austero, che in quaresima digiunava a pane ed acqua.
In contrapposizione a quest’uomo freddo e rigido c’era una donna
emancipata, ragazza madre, che arriva nel paese in piena quaresima e
apre un negozio di cioccolata. Appare molto premurosa verso gli altri,
molto caritatevole, senza essere praticante. Essa incarna una nuova
religione: la religione dell’amore senza sacrificio. Ed è ovvio che,
spontaneamente, si preferisca tale donna. Nel corso del film vediamo il
parroco passare dalla religione del conte a quella della cioccolataia.
Evidentemente,
se ci viene proposto di scegliere tra una religione dell’amore ed una
religione del sacrificio, la nostra scelta spontanea andrà alla
religione dell’amore, ma, in realtà, è uno scontro fallace, perché le
due nozioni d’amore e di sacrificio sono opposte solo in apparenza. In
realtà, rimandano una all’altra. Sulla terra, non c’è amore vero senza
sacrificio. Quando un giovane vuole sposare una ragazza, ciò che
l’attira è l’amore nei suoi confronti, ma quest’amore, se è vero e
profondo, poi lo porterà al sacrificio. Nella vita coniugale, per essere
fedeli al proprio coniuge fino alla morte, per accettare i figli ed
educarli cristianamente, è necessario sacrificarsi, perché la vita
quaggiù non è solo una passeggiata.
Faccio
quest’esempio perché rivela la mentalità corrente. All’uomo moderno va
bene una religione dell’amore, ma senza contropartita. Così oggi, anche
fra i cattolici, si tende a fare una scelta tra le verità insegnate
dalla Chiesa, per accettare solo quelle che non comportano esigenze. Un
Dio immanente che è in me come amico, mi sta bene! Un Dio trascendente
che è infinitamente al di sopra di me, che reclama il primo posto nella
mia vita e mi porta a Lui tramite la via della croce, questo è
esagerato! Gesù Salvatore, sì, Gesù Giudice, no! Un Dio misericordioso,
sono d’accordo. Un Dio giusto che condanna la gente all’inferno, beh,
non esageriamo! E così via… finché ognuno si fa una religione su misura.
E
questo oggi rende particolarmente difficile il nostro ministero
sacerdotale. In effetti, il sacerdote il giorno dell’ordinazione riceve
tre poteri: il potere d’insegnare, il potere di santificare e il potere
di dirigere le anime che gli sono affidate. La santificazione si produce
essenzialmente grazie ai sacramenti. In questo caso il sacerdote non è
che uno strumento nelle mani di Nostro Signore. È Lui che battezza, è
Lui che assolve, è Lui che si offre a Dio, Suo Padre, nel santo
Sacrificio della Messa.
Amore e Sacrificio
Ma,
perché i sacramenti producano gli effetti più salutari nelle anime, è
necessario che il sacerdote le prepari a riceverli nelle migliori
disposizioni.
Qui il sacerdote potrebbe avere la
tentazione di accontentarsi d’insegnare le verità piacevoli a
intendersi, a scapito delle altre. Ebbene, il sacerdote fedele insegna
tutte le verità. È così che Mons. Lefebvre, per riprendere l’esempio
dell’amore e del sacrificio, diceva ai suoi seminaristi di Mortain, in
Normandia, nel 1945: «Per noi peccatori è impossibile santificarci
nella carità senza fare delle rinunce. La misura della nostra carità
sarà quella della nostra rinuncia, della nostra abnegazione, essendo la
carità il positivo e la rinuncia il negativo: “Se qualcuno vuole essere
mio discepolo, rinneghi se stesso”. È la legge della carità».
È proprio a questa rinuncia che il vescovo invita i sacerdoti il giorno della loro ordinazione quando dice: «imitamini quod tractatis»,
considerate l’azione che compite, imitate il sacrificio che offrite;
celebrando il mistero della morte del Salvatore, cercate di mortificare
la vostra carne con tutti i suoi vizi e le sue concupiscenze. Perciò la
vita sacerdotale autentica è una vita d’amore che, sulle orme del
Maestro divino, include il sacrificio.
Un
confratello spiritoso ci raccontava, scherzando, che a Marsiglia, in una
chiesa, c’erano due misericordie. Le misericordie sono quelle tavolette
fissate sotto le sedute degli scanni per consentire ai sacerdoti di
appoggiarsi senza sedersi. C’erano quella del parroco e quella del
vicario. Su quella del parroco c’era scritto: sacerdos et pontifex, sacerdote e pontefice, e su quella del vicario: sacerdos et victima,
sacerdote e vittima! In realtà, tanto il parroco quanto il vicario sono
chiamati ad essere non solo pontefici (nel senso lato della parola
ponte, cioè intermediari tra Dio e le anime), ma anche vittime.
Il
sacerdote è chiamato ad essere vittima quando predica la verità
cattolica nella sua interezza. Infatti esistono verità piacevoli e altre
spiacevoli: un Dio misericordioso è più attraente di un Dio giusto. Una
predica sull’amore è più attraente di una sull’Inferno. Predicare
alcuni dogmi può attrarre di più che certi punti riguardanti la morale.
Ma il sacerdote autentico deve predicare non soltanto le verità
piacevoli, ma anche quelle spiacevoli, anche se, agendo così, non si
procura solo degli amici. Nostro Signore, infatti, ha detto ai suoi
Apostoli: «Vi mando come pecore tra i lupi»1 . San Paolo affermava: «Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo» 2.
Amore della Verità e senso di Dio
La
missione del sacerdote è il predicare tutte le verità da credere,
perché la Fede cattolica si professa o integralmente o affatto, come
diceva Papa Benedetto XV. Infatti, a forza di tacere alcune verità, i
cattolici finiscono per metterle in dubbio e, di conseguenza, per
perdere la Fede. È ciò che spiega Dom Guillerand nel suo libro «L’Ermitage »,
che leggo ogni anno ai seminaristi del corso di spiritualità:
«Osservate lealmente le vostre reazioni intime davanti alle “grandi
Verità” e saprete a che punto siete di questo capitolo: il peccato
originale, la morte, l’inferno, la Croce hanno un suono antipatico e
antiquato. Il servizio del prossimo attira di più di quello di Dio, e la
sua salvezza è vista più come un suo beneficio che come una gloria del
Signore. L’unione con lo stesso Dio ci tenta più come il coronamento
della nostra personalità che come una risposta disinteressata alle sue
proposte. Si è perso il senso di Dio a vantaggio di un senso erroneo
dell’uomo, che si pone non più come un “nulla” di fronte all’Essere
divino, ma come un “qualcuno” che Dio deve considerare. Sarebbe
sorprendente se una tale atmosfera non vi avesse contaminato.
Quest’ottica è all’opposto di quella del monaco (potremmo tradurre del
novizio alla ricerca di Dio). Voi dovete operare questa rettifica.
[…] Guardate instancabilmente alla Bibbia per trovarvi Dio quale vi si rivela Egli stesso. Non opponete il Dio d’Amore del Nuovo Testamento al Dio di timore del Vecchio: è un’antitesi illusoria. C’è un solo Dio che non muta e non si contraddice. Quello che era prima dell’Incarnazione, permane. È l’uomo che è cambiato. Imbaldanzitosi a causa della sua evoluzione culturale e forse interpretando male le condiscendenze evangeliche, assume riguardo a Dio degli atteggiamenti disinvolti e sfrontati molto estranei allo spirito del Magnificat. L’uomo di oggi non parla della sua nullità che sulla punta delle labbra ma si riempie la bocca della “realizzazione della sua personalità”. C’è dell’insolenza nella rivendicazione del suo “io”»3 .
[…] Guardate instancabilmente alla Bibbia per trovarvi Dio quale vi si rivela Egli stesso. Non opponete il Dio d’Amore del Nuovo Testamento al Dio di timore del Vecchio: è un’antitesi illusoria. C’è un solo Dio che non muta e non si contraddice. Quello che era prima dell’Incarnazione, permane. È l’uomo che è cambiato. Imbaldanzitosi a causa della sua evoluzione culturale e forse interpretando male le condiscendenze evangeliche, assume riguardo a Dio degli atteggiamenti disinvolti e sfrontati molto estranei allo spirito del Magnificat. L’uomo di oggi non parla della sua nullità che sulla punta delle labbra ma si riempie la bocca della “realizzazione della sua personalità”. C’è dell’insolenza nella rivendicazione del suo “io”»3 .
L’uomo
moderno ha finito col perdere la nozione chiara di alcune verità
cattoliche: come, ad esempio, il peccato originale, il peccato mortale,
la grazia, il giudizio finale, il Paradiso, il Purgatorio, l’Inferno, il
sacrificio… perché non sono più insegnate abbastanza.
Il
sacerdote, dunque, è chiamato ad insegnare tutte le verità della fede
cattolica. Ma deve anche mettere in guardia i fedeli dagli errori che
pullulano, specialmente oggi. È quello che i sacerdoti hanno sempre
fatto. Così, il dolce san Francesco di Sales ha convertito al
cattolicesimo 70.000 protestanti, perché ha non soltanto predicato la
verità, ma denunciato gli errori del suo tempo. Il cattolico è per la
verità, ma è al tempo stesso contro l’errore; ed è perfino dal grado di
odio per l’errore che è possibile misurare il suo grado d’amore per la
verità. Colui che lascia che l’errore si ponga a fianco della verità
come una regina legittima offende la verità.
Perché
sono per la salute, sono contro la malattia. Perché sono per la luce,
sono contro le tenebre. La luce manda via le tenebre. Ce lo dice san
Giovanni: «La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta»4
. Perché sono per Dio, io sono contro il demonio. È così che si spiega
come, al momento del battesimo, prima del triplice atto di Fede, ci sia
una triplice rinuncia a Satana. Donde ugualmente queste parole del santo
Curato d’Ars: «Se un pastore non vuole dannarsi, occorre che, se
nella sua parrocchia si verifica qualche disordine, calpesti il rispetto
umano e il timore di essere disprezzato dai suoi parrocchiani; e se
fosse sicuro di essere condannato a morte appena sceso dal pulpito, non
si fermi per questo. Un pastore che voglia compiere il suo dovere deve
avere sempre la spada in mano»5 . È così che
specialmente oggi il sacerdote – dopo Nostro Signore – appare come un
segno di contraddizione, perché la condanna degli errori moderni non è
percepita da molti dei nostri contemporanei. Eppure i Papi a partire dal
XVIII secolo hanno condannato successivamente: la massoneria, il
liberalismo, il falso ecumenismo, il modernismo. Per questo nel primo
anno di seminario, se l’essenza dell’insegnamento verte sulle verità da
credersi, attraverso le lezioni di Sacra Scrittura, di liturgia, di
patrologia, di spiritualità, c’è anche un corso di un’ora alla settimana
sulle encicliche papali riguardanti gli errori moderni. Studiando
queste encicliche, i seminaristi capiscono la gravità di quegli errori e
al tempo stesso la fondatezza della nostra posizione dottrinale.
La Vita di Cristo
Non
si deve, però, credere che l’essenza della formazione dei seminaristi
verta sulla parte negativa del nostro essere o sullo studio degli errori
moderni. In effetti, se è vero che siamo peccatori, noi siamo anche
figli di Dio, arricchiti da un tesoro meraviglioso (la grazia,
l’inabitazione della Trinità), ed è questo l’oggetto principale dei
nostri studi. I nostri seminaristi devono vivere in compagnia di Nostro
Signore. C’è Lui all’origine della vocazione, c’è Lui al centro della
vita del seminarista, come di quella del sacerdote. È Lui l’oggetto
principale degli studi e, al contempo, il compagno di viaggio del
seminarista. Così, questa vita trascorsa vicino a Nostro Signore
permette ai nostri seminaristi di acquisire non solo una mente
sacerdotale ma anche un cuore sacerdotale.
Così, per diventare «trasparenza di Dio», secondo la bella espressione di Dom Chautard ne «L’anima di ogni apostolato»,
il seminarista lavora al tempo stesso per attenuare le ferite
procurategli dal peccato originale e per vivere con Nostro Signore una
vita di fede, di speranza e di carità. E questi due aspetti sono
inscindibili. Infatti non c’è vita mistica ed unione con Dio senza vita
ascetica, senza un preventivo distacco da tutto ciò che non è Dio.
Il
genere di vita condotta in seminario e vissuta dai sacerdoti nel
ministero si riferisce a questa concezione dell’uomo e di Dio. L’uomo è,
al tempo stesso, ferito e arricchito da un tesoro straordinario a
partire dal battesimo, Dio è, al contempo, un essere trascendente,
infinitamente al di sopra di noi, Dio di maestà, ed il Verbo incarnato,
diventato uno di noi, immanente, presente in noi, come amico, se siamo
in stato di grazia. Ormai, «non vi chiamo più servi […] ma amici»6 .
Visto
che abbiamo una natura ferita ed il mondo circostante tende ad
accentuare queste ferite più che a cicatrizzarle, il seminarista vive
lontano dal mondo. San Giovanni, l’apostolo della carità, lui, che ha
avuto il privilegio di poter posare il capo sul Cuore di Nostro Signore
la sera del Giovedì Santo, lui che alla fine dei suoi giorni non cessava
di ripetere l’invito ad amare gli altri, san Giovanni, l’apostolo
amatissimo, scriveva ai giovani: «Non amate il mondo, né ciò che è
nel mondo. Se qualcuno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui.
Perché tutto ciò che è nel mondo è: concupiscenza degli occhi,
concupiscenza della carne e orgoglio della vita»7 . Ed è
interessante notare come questo passo di san Giovanni sia stato scelto
come epistola della messa per la perseveranza nella vocazione
sacerdotale. Il sacerdote, infatti, deve essere nel mondo ma non del
mondo.
Una vita regolata
Poiché
Dio vuole vivere in una grande intimità con noi, i seminaristi vivono
nel silenzio. All’infuori delle ricreazioni (a mezzogiorno, di sera e
tra le lezioni), noi viviamo nel silenzio. Questo silenzio, così
propizio alla preghiera, lo è ugualmente allo studio. Se il silenzio è
un’ascesi, è anche un esercizio di carità fraterna nel permettere agli
altri di studiare e nel favorire anche le buone conversazioni durante il
tempo per parlare.
Il fatto di trovarsi a
Flavigny in una casa specificamente religiosa e in uno dei più bei paesi
di Francia facilita l’elevazione a Dio dell’anima dei seminaristi.
Dalle
6 del mattino fino alle 22, nel regolamento del seminario nulla è
lasciato al capriccio o all’arbitrarietà, senza per questo escludere i
momenti di distensione. La vita del seminarista è molto densa tra
preghiere individuali e comuni, studi, letture, pasti, servizi,
ricreazioni… Questo permette di orientare le volontà e gli sforzi di
tutti verso l’ideale sacerdotale. Infatti, il regolamento del seminario
stimola l’energia di alcuni, frena la foga di altri, infine libera le
facoltà di tutti.
Inoltre ciò che aiuta i
seminaristi a coniugare nella propria vita il duplice aspetto della
rinuncia e dell’unione con Dio, è la vita liturgica. La giornata in
seminario è incentrata sulla Messa. Preceduta dall’ufficio di prima e da
una mezz’ora di preghiera silenziosa, la Messa è il sole della giornata
del seminarista come del sacerdote. Lì, il seminarista contempla il più
bell’esempio di amore e di sacrificio, poiché come diceva Mons.
Lefebvre: «La croce è l’amore spinto fino al sacrificio».
L’esempio
di Nostro Signore sulla Croce mi permette di precisare la natura della
vera carità cattolica. L’amore manifestato da Gesù crocifisso è al di
sopra dell’amore- istinto e dell’amore-sentimento, si tratta veramente
dell’amore-dono, che va fino al dono totale. Le braccia aperte di Gesù
sulla Croce, così come le parole che pronuncia, mostrano cosa sia la
vera carità cattolica. Essa trionfa del male per mezzo del bene,
spingendosi fino all’amore per i nemici.
Nella
scelta delle oblate (il pane e il vino presentati nell’offertorio),
ritroviamo il duplice aspetto di mortificazione e di unione. Infatti, i
chicchi di grano sono macinati per fornire il pane, gli acini d’uva sono
pressati per fare il vino. Così, Nostro Signore ha voluto scegliere
queste creature che saranno anch’esse strapazzate a sua immagine per
dare quel pane e quel vino che costituiscono gli strumenti della nostra
santificazione. Ma i chicchi di grano sono uniti insieme, per fare
un’unica pasta, e anche gli acini d’uva vengono uniti, per fare il vino,
manifestando come l’Eucaristia sia il sacramento dell’unità ed il segno
della carità che deve regnare tra i cattolici. Nelle oblate, quindi,
ritroviamo il duplice aspetto del sacrificio e dell’amore.
Inoltre,
per tutto l’anno liturgico, la Chiesa, nel suo ruolo pedagogico alterna
i periodi festivi ed i periodi penitenziali allo scopo di aiutarci
nello stesso tempo ad attenuare le conseguenze lasciate in noi dal
peccato originale e a sviluppare la vita della grazia ricevuta col
battesimo.
Nel primo anno, l’evento
indimenticabile resta la vestizione. In quel momento, i seminaristi
lasciano per sempre l’abito civile per rivestire quello sacerdotale. È
una tappa molto importante che concretizza il loro impegno al servizio
di Nostro Signore e della Sua Chiesa. E notate che l’abito ecclesiastico
riflette anch’esso il duplice ascetismo e misticismo del sacerdote. Può
risultare costrittivo indossare la talare, soprattutto all’inizio, ma
essa è nello stesso momento il segno di un indefettibile attaccamento a
Gesù Cristo. Se la talare rappresenta la morte rispetto all’uomo vecchio
e al mondo, durante gli uffici essa è ricoperta dalla cotta, che
simboleggia il rivestirsi dell’uomo nuovo.
La nostra originalità
Se
dei giovani scelgono questo seminario piuttosto che un altro,
nonostante tutte le etichette infamanti addossateci da una certa stampa e
talvolta perfino, ahimè, da alcuni uomini di Chiesa, mi pare che sia a
causa, al tempo stesso, del profumo di autenticità che li attira,
dell’identità che cercano tra pietà e dottrina e della coerenza tra
l’insegnamento dispensato e il modo di vita proposto nella pura linea
della Tradizione della Chiesa. Alcuni nostri seminaristi sono nati in
seno al movimento tradizionalista della Chiesa, ma altri sono cresciuti
nella loro parrocchia e altri ancora sono dei convertiti. Nel corso di
questi anni, sono passati da Flavigny francesi, svizzeri, italiani,
belgi, scozzesi, irlandesi, polacchi, gabonesi, libanesi, americani,
srilankesi, canadesi… Ed è bellissimo constatare l’osmosi creata tra
questi giovani provenienti da orizzonti tanto diversi. È una conferma
della formazione davvero cattolica dei nostri seminari, dato che
cattolico vuol dire universale.
Così, vedete,
come diceva il mio vecchio superiore di seminario, la nostra originalità
è il non essere originali. Noi non facciamo altro che quello che ha
fatto la Chiesa nei secoli passati. Mons. Lefebvre aveva scelto come
motto episcopale «Credidimus caritati - abbiamo creduto alla
carità». È questa carità, questo amore per Nostro Signore, questo amore
per la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica che lo ha influenzato
per tutta la vita e che egli ci ha trasmesso. Ha espresso il desiderio
che sulla sua tomba fosse incisa la citazione di san Paolo: «Tradidi quod et accepi - ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto»8 .
Oggi
noi stessi non abbiamo altra ambizione che trasmettere ciò che abbiamo
ricevuto e, per ricevere questo insegnamento e viverne, i seminaristi
hanno bisogno di silenzio, di raccoglimento e di preghiera. Se il
seminarista si isola negli anni della sua formazione, non è per
ripiegarsi su se stesso, ma per riempirsi veramente di Dio, per poter
trasmettere alle anime le verità della Fede e la Carità cattolica con
una convinzione profonda. Infatti, non può esserci vero apostolato senza
spirito di preghiera, senza spirito d’adorazione, senza spirito di
sacrificio. Il curato d’Ars, che abbiamo festeggiato quest’anno, ce lo
ha dimostrato molto bene.
Per concludere, ecco la
testimonianza di un seminarista del primo anno, quattro mesi dopo il
suo ingresso in seminario. Ci dimostra che, per quanto sia grande il
sacrificio nel dono di se stessi a Dio, è soprattutto la gioia il frutto
principale di questo dono totale. E questo si capisce, poiché, come
dice san Tommaso d’Aquino, i due primi frutti interiori della Carità
sono la pace e la gioia. Ecco quel che afferma questo seminarista:
«Quello che mi ha colpito di più in questo primo trimestre è il fatto di
essere veramente felice. Non mi aspettavo di essere così felice. Quando
ho deciso di entrare in seminario, vedevo soprattutto la dimensione del
sacrificio del mio passo, vedevo soprattutto quanto mi costasse donarmi
a Dio. Avevo davanti agli occhi soprattutto la difficoltà di questo
sacrificio. È vero che, una volta presa la decisione, il turbamento
inerente qualunque situazione in cui si debbano fare delle scelte
importanti, svanisce e subentra allora una pace indicibile. Tuttavia, la
dimensione sacrificale del mio ingresso in seminario mi era sempre
presente. Non immaginavo che si potesse essere così felici essendo
privati di tutto ciò in cui per il mondo risiede la felicità: senza
donna, senza denaro, senza potere, senza musica, senza cinema né
televisione, senza libertà di uscire quando se ne ha voglia, ecc. La
risposta era semplicissima, e l’ho scoperta nel corso di questi primi
mesi di vita in seminario: è una vita di unione intima con Dio, cosa che
nel mondo si può difficilmente comprendere; la gioia di fare la volontà
di Dio, la gioia di essere là dove Egli vuole che si sia. Adesso,
capisco assai meglio questa frase dell’Imitazione di Gesù Cristo:
”bisogna dare tutto per trovare tutto”. Infatti è donandosi totalmente a
Dio che troviamo Dio e, quando troviamo Dio, troviamo tutto. Non c’è
nessun bisogno di andare a cercare altrove una felicità che possiamo
trovare solo in Lui. Così, la mia visione della vita in seminario è
profondamente cambiata. È stata trasformata dall’unione con Dio ed io
auguro a tutti la stessa grazia».
don Patrick Troadec
Fonte: Nova et Vetra n. 17 (2010) e La Tradizione Cattolica n° 78 (2011)
Note:
1 Mt 10, 16
2 Gal 1, 10
3 A. Guillerand, L’Ermitage, p. 99-103; 108-109
4 Gv 1, 5
5 Mons. F. Trochu, Il curato d’Ars: san Giovanni Maria Battista Vianney, Marietti, Torino, Roma, 1937
6 Gv 15, 15
7 1 Gv 2, 16
8 1Cor 15, 3
2 Gal 1, 10
3 A. Guillerand, L’Ermitage, p. 99-103; 108-109
4 Gv 1, 5
5 Mons. F. Trochu, Il curato d’Ars: san Giovanni Maria Battista Vianney, Marietti, Torino, Roma, 1937
6 Gv 15, 15
7 1 Gv 2, 16
8 1Cor 15, 3
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