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mercoledì 13 maggio 2020

La Formazione dei Futuri Sacerdoti


Alcuni anni fa a Flavigny è stato girato un film americano, intitolato «Le chocolat». I due attori principali erano Juliette Binoche e Johnny Depp. In questo film, la religione cattolica veniva presentata come la religione del sacrificio, senza amore, ed era personificata da un conte, molto osservante, molto austero, che in quaresima digiunava a pane ed acqua. In contrapposizione a quest’uomo freddo e rigido c’era una donna emancipata, ragazza madre, che arriva nel paese in piena quaresima e apre un negozio di cioccolata. Appare molto premurosa verso gli altri, molto caritatevole, senza essere praticante. Essa incarna una nuova religione: la religione dell’amore senza sacrificio. Ed è ovvio che, spontaneamente, si preferisca tale donna. Nel corso del film vediamo il parroco passare dalla religione del conte a quella della cioccolataia.

Evidentemente, se ci viene proposto di scegliere tra una religione dell’amore ed una religione del sacrificio, la nostra scelta spontanea andrà alla religione dell’amore, ma, in realtà, è uno scontro fallace, perché le due nozioni d’amore e di sacrificio sono opposte solo in apparenza. In realtà, rimandano una all’altra. Sulla terra, non c’è amore vero senza sacrificio. Quando un giovane vuole sposare una ragazza, ciò che l’attira è l’amore nei suoi confronti, ma quest’amore, se è vero e profondo, poi lo porterà al sacrificio. Nella vita coniugale, per essere fedeli al proprio coniuge fino alla morte, per accettare i figli ed educarli cristianamente, è necessario sacrificarsi, perché la vita quaggiù non è solo una passeggiata.

Faccio quest’esempio perché rivela la mentalità corrente. All’uomo moderno va bene una religione dell’amore, ma senza contropartita. Così oggi, anche fra i cattolici, si tende a fare una scelta tra le verità insegnate dalla Chiesa, per accettare solo quelle che non comportano esigenze. Un Dio immanente che è in me come amico, mi sta bene! Un Dio trascendente che è infinitamente al di sopra di me, che reclama il primo posto nella mia vita e mi porta a Lui tramite la via della croce, questo è esagerato! Gesù Salvatore, sì, Gesù Giudice, no! Un Dio misericordioso, sono d’accordo. Un Dio giusto che condanna la gente all’inferno, beh, non esageriamo! E così via… finché ognuno si fa una religione su misura.

E questo oggi rende particolarmente difficile il nostro ministero sacerdotale. In effetti, il sacerdote il giorno dell’ordinazione riceve tre poteri: il potere d’insegnare, il potere di santificare e il potere di dirigere le anime che gli sono affidate. La santificazione si produce essenzialmente grazie ai sacramenti. In questo caso il sacerdote non è che uno strumento nelle mani di Nostro Signore. È Lui che battezza, è Lui che assolve, è Lui che si offre a Dio, Suo Padre, nel santo Sacrificio della Messa.

Amore e Sacrificio

Ma, perché i sacramenti producano gli effetti più salutari nelle anime, è necessario che il sacerdote le prepari a riceverli nelle migliori disposizioni.

Qui il sacerdote potrebbe avere la tentazione di accontentarsi d’insegnare le verità piacevoli a intendersi, a scapito delle altre. Ebbene, il sacerdote fedele insegna tutte le verità. È così che Mons. Lefebvre, per riprendere l’esempio dell’amore e del sacrificio, diceva ai suoi seminaristi di Mortain, in Normandia, nel 1945: «Per noi peccatori è impossibile santificarci nella carità senza fare delle rinunce. La misura della nostra carità sarà quella della nostra rinuncia, della nostra abnegazione, essendo la carità il positivo e la rinuncia il negativo: “Se qualcuno vuole essere mio discepolo, rinneghi se stesso”. È la legge della carità».

È proprio a questa rinuncia che il vescovo invita i sacerdoti il giorno della loro ordinazione quando dice: «imitamini quod tractatis», considerate l’azione che compite, imitate il sacrificio che offrite; celebrando il mistero della morte del Salvatore, cercate di mortificare la vostra carne con tutti i suoi vizi e le sue concupiscenze. Perciò la vita sacerdotale autentica è una vita d’amore che, sulle orme del Maestro divino, include il sacrificio.

Un confratello spiritoso ci raccontava, scherzando, che a Marsiglia, in una chiesa, c’erano due misericordie. Le misericordie sono quelle tavolette fissate sotto le sedute degli scanni per consentire ai sacerdoti di appoggiarsi senza sedersi. C’erano quella del parroco e quella del vicario. Su quella del parroco c’era scritto: sacerdos et pontifex, sacerdote e pontefice, e su quella del vicario: sacerdos et victima, sacerdote e vittima! In realtà, tanto il parroco quanto il vicario sono chiamati ad essere non solo pontefici (nel senso lato della parola ponte, cioè intermediari tra Dio e le anime), ma anche vittime.

Il sacerdote è chiamato ad essere vittima quando predica la verità cattolica nella sua interezza. Infatti esistono verità piacevoli e altre spiacevoli: un Dio misericordioso è più attraente di un Dio giusto. Una predica sull’amore è più attraente di una sull’Inferno. Predicare alcuni dogmi può attrarre di più che certi punti riguardanti la morale. Ma il sacerdote autentico deve predicare non soltanto le verità piacevoli, ma anche quelle spiacevoli, anche se, agendo così, non si procura solo degli amici. Nostro Signore, infatti, ha detto ai suoi Apostoli: «Vi mando come pecore tra i lupi»1 . San Paolo affermava: «Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo» 2.

Amore della Verità e senso di Dio

La missione del sacerdote è il predicare tutte le verità da credere, perché la Fede cattolica si professa o integralmente o affatto, come diceva Papa Benedetto XV. Infatti, a forza di tacere alcune verità, i cattolici finiscono per metterle in dubbio e, di conseguenza, per perdere la Fede. È ciò che spiega Dom Guillerand nel suo libro «L’Ermitage », che leggo ogni anno ai seminaristi del corso di spiritualità: «Osservate lealmente le vostre reazioni intime davanti alle “grandi Verità” e saprete a che punto siete di questo capitolo: il peccato originale, la morte, l’inferno, la Croce hanno un suono antipatico e antiquato. Il servizio del prossimo attira di più di quello di Dio, e la sua salvezza è vista più come un suo beneficio che come una gloria del Signore. L’unione con lo stesso Dio ci tenta più come il coronamento della nostra personalità che come una risposta disinteressata alle sue proposte. Si è perso il senso di Dio a vantaggio di un senso erroneo dell’uomo, che si pone non più come un “nulla” di fronte all’Essere divino, ma come un “qualcuno” che Dio deve considerare. Sarebbe sorprendente se una tale atmosfera non vi avesse contaminato. Quest’ottica è all’opposto di quella del monaco (potremmo tradurre del novizio alla ricerca di Dio). Voi dovete operare questa rettifica.
[…] Guardate instancabilmente alla Bibbia per trovarvi Dio quale vi si rivela Egli stesso. Non opponete il Dio d’Amore del Nuovo Testamento al Dio di timore del Vecchio: è un’antitesi illusoria. C’è un solo Dio che non muta e non si contraddice. Quello che era prima dell’Incarnazione, permane. È l’uomo che è cambiato. Imbaldanzitosi a causa della sua evoluzione culturale e forse interpretando male le condiscendenze evangeliche, assume riguardo a Dio degli atteggiamenti disinvolti e sfrontati molto estranei allo spirito del Magnificat. L’uomo di oggi non parla della sua nullità che sulla punta delle labbra ma si riempie la bocca della “realizzazione della sua personalità”. C’è dell’insolenza nella rivendicazione del suo “io”»3 .

L’uomo moderno ha finito col perdere la nozione chiara di alcune verità cattoliche: come, ad esempio, il peccato originale, il peccato mortale, la grazia, il giudizio finale, il Paradiso, il Purgatorio, l’Inferno, il sacrificio… perché non sono più insegnate abbastanza.

Il sacerdote, dunque, è chiamato ad insegnare tutte le verità della fede cattolica. Ma deve anche mettere in guardia i fedeli dagli errori che pullulano, specialmente oggi. È quello che i sacerdoti hanno sempre fatto. Così, il dolce san Francesco di Sales ha convertito al cattolicesimo 70.000 protestanti, perché ha non soltanto predicato la verità, ma denunciato gli errori del suo tempo. Il cattolico è per la verità, ma è al tempo stesso contro l’errore; ed è perfino dal grado di odio per l’errore che è possibile misurare il suo grado d’amore per la verità. Colui che lascia che l’errore si ponga a fianco della verità come una regina legittima offende la verità.

Perché sono per la salute, sono contro la malattia. Perché sono per la luce, sono contro le tenebre. La luce manda via le tenebre. Ce lo dice san Giovanni: «La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta»4 . Perché sono per Dio, io sono contro il demonio. È così che si spiega come, al momento del battesimo, prima del triplice atto di Fede, ci sia una triplice rinuncia a Satana. Donde ugualmente queste parole del santo Curato d’Ars: «Se un pastore non vuole dannarsi, occorre che, se nella sua parrocchia si verifica qualche disordine, calpesti il rispetto umano e il timore di essere disprezzato dai suoi parrocchiani; e se fosse sicuro di essere condannato a morte appena sceso dal pulpito, non si fermi per questo. Un pastore che voglia compiere il suo dovere deve avere sempre la spada in mano»5 . È così che specialmente oggi il sacerdote – dopo Nostro Signore – appare come un segno di contraddizione, perché la condanna degli errori moderni non è percepita da molti dei nostri contemporanei. Eppure i Papi a partire dal XVIII secolo hanno condannato successivamente: la massoneria, il liberalismo, il falso ecumenismo, il modernismo. Per questo nel primo anno di seminario, se l’essenza dell’insegnamento verte sulle verità da credersi, attraverso le lezioni di Sacra Scrittura, di liturgia, di patrologia, di spiritualità, c’è anche un corso di un’ora alla settimana sulle encicliche papali riguardanti gli errori moderni. Studiando queste encicliche, i seminaristi capiscono la gravità di quegli errori e al tempo stesso la fondatezza della nostra posizione dottrinale.

La Vita di Cristo

Non si deve, però, credere che l’essenza della formazione dei seminaristi verta sulla parte negativa del nostro essere o sullo studio degli errori moderni. In effetti, se è vero che siamo peccatori, noi siamo anche figli di Dio, arricchiti da un tesoro meraviglioso (la grazia, l’inabitazione della Trinità), ed è questo l’oggetto principale dei nostri studi. I nostri seminaristi devono vivere in compagnia di Nostro Signore. C’è Lui all’origine della vocazione, c’è Lui al centro della vita del seminarista, come di quella del sacerdote. È Lui l’oggetto principale degli studi e, al contempo, il compagno di viaggio del seminarista. Così, questa vita trascorsa vicino a Nostro Signore permette ai nostri seminaristi di acquisire non solo una mente sacerdotale ma anche un cuore sacerdotale.

Così, per diventare «trasparenza di Dio», secondo la bella espressione di Dom Chautard ne «L’anima di ogni apostolato», il seminarista lavora al tempo stesso per attenuare le ferite procurategli dal peccato originale e per vivere con Nostro Signore una vita di fede, di speranza e di carità. E questi due aspetti sono inscindibili. Infatti non c’è vita mistica ed unione con Dio senza vita ascetica, senza un preventivo distacco da tutto ciò che non è Dio.

La formazione offerta nei nostri seminari tiene conto di queste due esigenze.

Il genere di vita condotta in seminario e vissuta dai sacerdoti nel ministero si riferisce a questa concezione dell’uomo e di Dio. L’uomo è, al tempo stesso, ferito e arricchito da un tesoro straordinario a partire dal battesimo, Dio è, al contempo, un essere trascendente, infinitamente al di sopra di noi, Dio di maestà, ed il Verbo incarnato, diventato uno di noi, immanente, presente in noi, come amico, se siamo in stato di grazia. Ormai, «non vi chiamo più servi […] ma amici»6 .

Visto che abbiamo una natura ferita ed il mondo circostante tende ad accentuare queste ferite più che a cicatrizzarle, il seminarista vive lontano dal mondo. San Giovanni, l’apostolo della carità, lui, che ha avuto il privilegio di poter posare il capo sul Cuore di Nostro Signore la sera del Giovedì Santo, lui che alla fine dei suoi giorni non cessava di ripetere l’invito ad amare gli altri, san Giovanni, l’apostolo amatissimo, scriveva ai giovani: «Non amate il mondo, né ciò che è nel mondo. Se qualcuno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo è: concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e orgoglio della vita»7 . Ed è interessante notare come questo passo di san Giovanni sia stato scelto come epistola della messa per la perseveranza nella vocazione sacerdotale. Il sacerdote, infatti, deve essere nel mondo ma non del mondo.

Una vita regolata

Poiché Dio vuole vivere in una grande intimità con noi, i seminaristi vivono nel silenzio. All’infuori delle ricreazioni (a mezzogiorno, di sera e tra le lezioni), noi viviamo nel silenzio. Questo silenzio, così propizio alla preghiera, lo è ugualmente allo studio. Se il silenzio è un’ascesi, è anche un esercizio di carità fraterna nel permettere agli altri di studiare e nel favorire anche le buone conversazioni durante il tempo per parlare.

Il fatto di trovarsi a Flavigny in una casa specificamente religiosa e in uno dei più bei paesi di Francia facilita l’elevazione a Dio dell’anima dei seminaristi.

Dalle 6 del mattino fino alle 22, nel regolamento del seminario nulla è lasciato al capriccio o all’arbitrarietà, senza per questo escludere i momenti di distensione. La vita del seminarista è molto densa tra preghiere individuali e comuni, studi, letture, pasti, servizi, ricreazioni… Questo permette di orientare le volontà e gli sforzi di tutti verso l’ideale sacerdotale. Infatti, il regolamento del seminario stimola l’energia di alcuni, frena la foga di altri, infine libera le facoltà di tutti.

Inoltre ciò che aiuta i seminaristi a coniugare nella propria vita il duplice aspetto della rinuncia e dell’unione con Dio, è la vita liturgica. La giornata in seminario è incentrata sulla Messa. Preceduta dall’ufficio di prima e da una mezz’ora di preghiera silenziosa, la Messa è il sole della giornata del seminarista come del sacerdote. Lì, il seminarista contempla il più bell’esempio di amore e di sacrificio, poiché come diceva Mons. Lefebvre: «La croce è l’amore spinto fino al sacrificio».

L’esempio di Nostro Signore sulla Croce mi permette di precisare la natura della vera carità cattolica. L’amore manifestato da Gesù crocifisso è al di sopra dell’amore- istinto e dell’amore-sentimento, si tratta veramente dell’amore-dono, che va fino al dono totale. Le braccia aperte di Gesù sulla Croce, così come le parole che pronuncia, mostrano cosa sia la vera carità cattolica. Essa trionfa del male per mezzo del bene, spingendosi fino all’amore per i nemici.

Nella scelta delle oblate (il pane e il vino presentati nell’offertorio), ritroviamo il duplice aspetto di mortificazione e di unione. Infatti, i chicchi di grano sono macinati per fornire il pane, gli acini d’uva sono pressati per fare il vino. Così, Nostro Signore ha voluto scegliere queste creature che saranno anch’esse strapazzate a sua immagine per dare quel pane e quel vino che costituiscono gli strumenti della nostra santificazione. Ma i chicchi di grano sono uniti insieme, per fare un’unica pasta, e anche gli acini d’uva vengono uniti, per fare il vino, manifestando come l’Eucaristia sia il sacramento dell’unità ed il segno della carità che deve regnare tra i cattolici. Nelle oblate, quindi, ritroviamo il duplice aspetto del sacrificio e dell’amore.

Inoltre, per tutto l’anno liturgico, la Chiesa, nel suo ruolo pedagogico alterna i periodi festivi ed i periodi penitenziali allo scopo di aiutarci nello stesso tempo ad attenuare le conseguenze lasciate in noi dal peccato originale e a sviluppare la vita della grazia ricevuta col battesimo.

Nel primo anno, l’evento indimenticabile resta la vestizione. In quel momento, i seminaristi lasciano per sempre l’abito civile per rivestire quello sacerdotale. È una tappa molto importante che concretizza il loro impegno al servizio di Nostro Signore e della Sua Chiesa. E notate che l’abito ecclesiastico riflette anch’esso il duplice ascetismo e misticismo del sacerdote. Può risultare costrittivo indossare la talare, soprattutto all’inizio, ma essa è nello stesso momento il segno di un indefettibile attaccamento a Gesù Cristo. Se la talare rappresenta la morte rispetto all’uomo vecchio e al mondo, durante gli uffici essa è ricoperta dalla cotta, che simboleggia il rivestirsi dell’uomo nuovo.

La nostra originalità

Se dei giovani scelgono questo seminario piuttosto che un altro, nonostante tutte le etichette infamanti addossateci da una certa stampa e talvolta perfino, ahimè, da alcuni uomini di Chiesa, mi pare che sia a causa, al tempo stesso, del profumo di autenticità che li attira, dell’identità che cercano tra pietà e dottrina e della coerenza tra l’insegnamento dispensato e il modo di vita proposto nella pura linea della Tradizione della Chiesa. Alcuni nostri seminaristi sono nati in seno al movimento tradizionalista della Chiesa, ma altri sono cresciuti nella loro parrocchia e altri ancora sono dei convertiti. Nel corso di questi anni, sono passati da Flavigny francesi, svizzeri, italiani, belgi, scozzesi, irlandesi, polacchi, gabonesi, libanesi, americani, srilankesi, canadesi… Ed è bellissimo constatare l’osmosi creata tra questi giovani provenienti da orizzonti tanto diversi. È una conferma della formazione davvero cattolica dei nostri seminari, dato che cattolico vuol dire universale.

Così, vedete, come diceva il mio vecchio superiore di seminario, la nostra originalità è il non essere originali. Noi non facciamo altro che quello che ha fatto la Chiesa nei secoli passati. Mons. Lefebvre aveva scelto come motto episcopale «Credidimus caritati - abbiamo creduto alla carità». È questa carità, questo amore per Nostro Signore, questo amore per la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica che lo ha influenzato per tutta la vita e che egli ci ha trasmesso. Ha espresso il desiderio che sulla sua tomba fosse incisa la citazione di san Paolo: «Tradidi quod et accepi - ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto»8 .

Oggi noi stessi non abbiamo altra ambizione che trasmettere ciò che abbiamo ricevuto e, per ricevere questo insegnamento e viverne, i seminaristi hanno bisogno di silenzio, di raccoglimento e di preghiera. Se il seminarista si isola negli anni della sua formazione, non è per ripiegarsi su se stesso, ma per riempirsi veramente di Dio, per poter trasmettere alle anime le verità della Fede e la Carità cattolica con una convinzione profonda. Infatti, non può esserci vero apostolato senza spirito di preghiera, senza spirito d’adorazione, senza spirito di sacrificio. Il curato d’Ars, che abbiamo festeggiato quest’anno, ce lo ha dimostrato molto bene.

Per concludere, ecco la testimonianza di un seminarista del primo anno, quattro mesi dopo il suo ingresso in seminario. Ci dimostra che, per quanto sia grande il sacrificio nel dono di se stessi a Dio, è soprattutto la gioia il frutto principale di questo dono totale. E questo si capisce, poiché, come dice san Tommaso d’Aquino, i due primi frutti interiori della Carità sono la pace e la gioia. Ecco quel che afferma questo seminarista: «Quello che mi ha colpito di più in questo primo trimestre è il fatto di essere veramente felice. Non mi aspettavo di essere così felice. Quando ho deciso di entrare in seminario, vedevo soprattutto la dimensione del sacrificio del mio passo, vedevo soprattutto quanto mi costasse donarmi a Dio. Avevo davanti agli occhi soprattutto la difficoltà di questo sacrificio. È vero che, una volta presa la decisione, il turbamento inerente qualunque situazione in cui si debbano fare delle scelte importanti, svanisce e subentra allora una pace indicibile. Tuttavia, la dimensione sacrificale del mio ingresso in seminario mi era sempre presente. Non immaginavo che si potesse essere così felici essendo privati di tutto ciò in cui per il mondo risiede la felicità: senza donna, senza denaro, senza potere, senza musica, senza cinema né televisione, senza libertà di uscire quando se ne ha voglia, ecc. La risposta era semplicissima, e l’ho scoperta nel corso di questi primi mesi di vita in seminario: è una vita di unione intima con Dio, cosa che nel mondo si può difficilmente comprendere; la gioia di fare la volontà di Dio, la gioia di essere là dove Egli vuole che si sia. Adesso, capisco assai meglio questa frase dell’Imitazione di Gesù Cristo: ”bisogna dare tutto per trovare tutto”. Infatti è donandosi totalmente a Dio che troviamo Dio e, quando troviamo Dio, troviamo tutto. Non c’è nessun bisogno di andare a cercare altrove una felicità che possiamo trovare solo in Lui. Così, la mia visione della vita in seminario è profondamente cambiata. È stata trasformata dall’unione con Dio ed io auguro a tutti la stessa grazia».

don Patrick Troadec

Fonte: Nova et Vetra n. 17 (2010) e La Tradizione Cattolica n° 78 (2011)

Note:
1 Mt 10, 16
2 Gal 1, 10
3 A. Guillerand, L’Ermitage, p. 99-103; 108-109
4 Gv 1, 5
5 Mons. F. Trochu, Il curato d’Ars: san Giovanni Maria Battista Vianney, Marietti, Torino, Roma, 1937
6 Gv 15, 15
7 1 Gv 2, 16
8 1Cor 15, 3

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