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I
Molte sono le ragioni, ragazzi
miei, che mi spingono a darvi quei consigli che giudico i migliori e che
credo possano esservi
utili, nel caso
li seguiate. Infatti l’essere
arrivato a questa età, l’aver affrontato ormai molte prove e l’aver preso parte
abbastanza alle alterne vicende della sorte che tutto insegna, mi hanno reso
tanto esperto delle cose umane da poter mostrare la via più sicura a chi da
poco si è incamminato lungo il sentiero della vita. Per grado di parentela io
vengo subito dopo i vostri genitori, così che non nutro per voi meno affetto di
loro. D’altra parte, se non interpreto male i vostri sentimenti, credo che
neanche voi, guardando me, sentiate la mancanza dei vostri genitori. Se dunque
farete tesoro delle mie parole, sarete al secondo posto della graduatoria di
merito stilata da Esiodo; altrimenti,
senza che sia
io a dovervi
dire qualcosa di
spiacevole, basterà che vi
ricordiate dei suoi versi:
«Ottimo è colui
che da se
stesso vede ciò
di cui ha
bisogno; buono chi segue ciò che gli viene mostrato da
altri; ma chi non è capace né dell’una né dell’altra cosa, è del tutto inetto».
Non meravigliatevi poi se a voi,
che pur frequentate ogni giorno la scuola e avete familiarità con i più
illustri degli antichi
scrittori grazie alle
opere che ci
hanno lasciato, io
dico d’averci personalmente trovato
qualche cosa di
davvero utile. Io
vengo a consigliarvi
appunto questo: non bisogna che voi, affidando a questi
personaggi una volta per tutte il timone della vostra intelligenza, come si
fa con una
nave, li seguiate
dovunque vi portino,
ma, accogliendo quanto
hanno di utile, sappiate anche
ciò che bisogna
lasciai perdere. Comincerò
dunque a spiegarvi
quali siano queste cose e con quali parametri debbano
essere valutate.
II
Noi, ragazzi miei, crediamo che
la vita dell’uomo in questo mondo non abbia un valore assoluto, né consideriamo
o definiamo vero bene ciò che circoscrive la sua utilità entro i limiti di
questa vita. Perciò non riteniamo
degna di essere
desiderata né la
nobiltà di nascita
né la forza
fisica o la bellezza o la statura del corpo, né gli
onori del mondo né il potere e nemmeno ciò che si potrebbe dire grande
tra le cose
umane. E neppure
invidiamo quelli che
posseggono tali beni,
ma ci spingiamo ben oltre con la
speranza e facciamo tutto nella prospettiva di un’altra vita.
Di conseguenza,
affermiamo che bisogna
amare e ricercare
con tutte le
forze tutto ciò
che ci aiuta a
raggiungere una tale
vita; quanto invece
non ci orienta
ad essa va
trascurato come cosa
di nessuna importanza. Come sia poi questa vita e dove e in che modo noi
la vivremo, sarebbe troppo lungo da spiegare
rispetto allo scopo
che qui mi
sono proposto, e
ci vorrebbero interlocutori
più maturi di voi. Per darvi un’idea di ciò che intendo, basterà forse
dire solo questo, che, cioè, se uno potesse abbracciare col pensiero e mettere
insieme tutta la felicità che c’è stata al mondo da quando gli uomini esistono,
scoprirebbe che essa non è paragonabile nemmeno alla più piccola parte di quei
beni; anzi, troverebbe che la totalità dei beni di quaggiù è distante per
valore dal più piccolo bene di lassù più di quanto l’ombra e il sogno sono
lontani dalla realtà. O piuttosto, per usare un
esempio più appropriato, quanto l’anima è sotto ogni aspetto più
preziosa del corpo, tanta è l’una vita è differente dall’altra.
A quest’altra vita ci conduce la
Parola di Dio con l’insegnamento dei suoi misteri. Ma fin tanto che per l’età
non siamo in grado di comprenderne il senso profondo, ci esercitiamo con
l’occhio dell’anima su altri libri non del tutto diversi, come su ombre e
specchi, imitando quelli che fanno le esercitazioni militari.
Questi, una volta
acquisita esperienza nei
movimenti delle braccia
e nella marcia cadenzata,
da questo addestramento
ricavano poi profitto
per le vere
battaglie. Dobbiamo anche noi
credere di aver
dinanzi una battaglia,
la più dura
di tutte le
battaglie, per la
quale dobbiamo fare tutto
e sforzarci il
più possibile per prepararci
ad essa; e
bisogna consultare poeti, storici, oratori
e tutte quelle
persone da cui
possa venirci un
qualche aiuto per
il bene della
nostra anima.
Come i
tintori che, solo
dopo aver preparato
con trattamenti particolari
la stoffa che
deve ricevere la tintura, vi applicano il colore vivo, il rosso porpora
o qualunque altro, così anche noi, se vogliamo che rimanga indelebile in noi
l’idea del bene, solo dopo essere stati preparati con gli studi profani,
comprenderemo i misteri dei sacri insegnamenti. Così, una volta abituati a
guardare il sole riflesso nell’acqua, potremo fissare il nostro sguardo
direttamente nella luce.
III
Se dunque tra le lettere profane
e quelle sacre c’è qualche affinità, il conoscerle entrambe ci sarà senz’altro
utile; in caso contrario, il metterle a confronto e capirne la differenza
servirà non poco a confermarci
nella scelta migliore.
Ma a che
cosa potremo paragonare
i due insegnamenti
per farcene un’immagine adeguata? Come una pianta ha sì per suo proprio
carattere quello di caricarsi di frutti nella
giusta stagione, ma porta anche come ornamento le foglie che stormiscono sui rami, così anche l’anima,
sebbene il suo frutto caratteristico sia la verità, non è sconveniente che si
circondi di sapienza profana come di foglie che diano al frutto riparo e un
aspetto piacevole. Si dice del resto che il grande Mosè, così famoso nel mondo
per la sua saggezza, solo dopo aver esercitato la mente nelle scienze degli
Egiziani, si dette alla contemplazione dell’Essere. E come lui, ma in epoca
più recente, dicono
che il saggio
Daniele prima abbia
imparato a Babilonia
la sapienza dei Caldei e si sia poi dedicato allo studio
delle cose divine.
IV
Si è
già detto abbastanza
che questi insegnamenti
profani non sono
inutili per l’anima. Rimarrebbe da dire in che modo voi
dobbiate accostarvi ad essi.
Prima di tutto, per cominciare dai poeti, non bisogna prestare
attenzione indistintamente a tutto
quel che
troviamo presso di
loro, dal momento
che alcuni trattano argomenti
di ogni genere;
ma quando vi narrano
le imprese o
i discorsi di
uomini virtuosi, bisogna
amarli ed imitarli
e cercare soprattutto di
essere simili a
loro. Ma ogni
qualvolta passano a
rappresentare uomini malvagi, bisogna rifuggire
queste letture, tappandoci
le orecchie non meno
di quanto i
poeti dicono che Ulisse rifuggì il canto delle Sirene.
Infatti, l’abitudine ai discorsi cattivi è come una via verso le azioni. Bisogna
pertanto custodire l’anima
con ogni cura,
affinché attraverso la
dolcezza delle parole non
assumiamo, senza accorgercene, qualcosa di deleterio, come chi insieme al miele
beve i veleni.
Dunque non
loderemo i poeti
quando rappresentano persone
che insultano o dicono scurrilità
o amoreggiano o si
ubriacano, né quando
riducono la felicità
ad una tavola
imbandita e a
canti dissoluti. E ancor
meno daremo loro
ascolto quando trattano
dei loro dei,
e soprattutto quando
ne parlano come se fossero molti e discordi tra loro. Presso di loro,
infatti, il fratello è in contrasto col fratello, il padre con i figli e c’è
guerra implacabile tra figli e genitori. Lasceremo poi agli attori gli adulteri degli
dei, i loro
amori ed accoppiamenti
alla luce del
giorno, e soprattutto
quelli del loro capicoro, ossia
del sommo Giove,
come lo chiamano,
del quale si
raccontano cose che se
si dicessero degli animali farebbero comunque arrossire. Lo stesso devo
dire dei prosatori soprattutto quando scrivono per sedurre gli uditori. Degli
oratori poi non imiteremo l’arte volta all’inganno. Né nei tribunali né in
altra circostanza, infatti, ci è permessa la menzogna, a noi che abbiamo scelto
la via diritta e
vera della vita
e a cui
la legge vieta
di intentare processi.
Ma piuttosto sceglieremo quegli scritti nei quali è lodata
la virtù o condannato il vizio.
Come dai fiori le altre creature
ricavano solo il piacere del profumo o del colore, mentre le api vi attingono
anche il miele, allo stesso modo da questi scritti, quanti non vi cercano
soltanto il fascino e la dolcezza, possono
ricavare anche un qualche giovamento per l’anima. Dobbiamo appunto
accostarci a tali opere seguendo in tutto l’esempio delle api. Esse non si posano
indistintamente su tutti i fiori né cercano di portar via tutto da quelli sui
quali si posano; ma prendendo soltanto quanto è necessario al loro lavoro,
lasciano perdere il resto. E anche noi, se siamo saggi, una volta attinto da quelle
opere quanto ci
è utile ed
è conforme alla
verità, il resto
lo trascureremo. E
come nel cogliere una rosa
evitiamo le spine, così nel cogliere in questi libri quanto ci è utile, staremo
attenti a ciò che è dannoso.
Come prima
cosa, dunque, bisogna
esaminare bene ciascun
aspetto di tali
studi e adeguarli
al nostro scopo, sistemando, secondo il proverbio dorico, la pietra a
fil di piombo.
V
E siccome alla nostra vita,
quella vera, dobbiamo tendere per mezzo della virtù ed è a questa che molti
elogi sono stati fatti dai poeti, dai prosatori e ancor più dai filosofi,
bisogna dedicarsi in modo particolare a questo genere di scritti. Non è infatti
piccolo vantaggio che nell’animo dei ragazzi si crei una
certa familiarità e
dimestichezza con la
virtù, poiché gli
insegnamenti ditali scrittori
si imprimono nel profondo
del loro animo
ancora tenero e
sono di per
sé indelebili. Con
quale altra intenzione pensiamo
che Esiodo abbia
scritto questi versi,
che tutti recitano,
se non per
esortare i giovani alla virtù?
«La via che conduce alla virtù è all’inizio aspra, difficile, piena di molto
sudore e fatica e malagevole».
Perciò non
è da tutti
accedervi, a causa
della sua ripidità,
o giungere facilmente alla cima,
una volta intrapresa la salita. Però chi è arrivato in alto può vedere
come essa sia piana e bella, come sia facile, agevole e migliore dell’altra che
conduce al vizio e che, come disse questo stesso poeta, è affollata per
la sua stessa
accessibilità. A me infatti sembra che Esiodo per nessun’altra ragione
abbia scritto queste cose se non per esortarci alla virtù, per invitare tutti
ad essere virtuosi e perché, lasciandoci scoraggiare dalle difficoltà, non desistiamo dal
raggiungere la meta. E naturalmente se anche
qualche altro ha
elogiato la virtù
in modo analogo,
dobbiamo accogliere le
sue parole, dal momento che ci conducono allo stesso
fine.
Io ho sentito dire da una persona
abile nell’interpretare il pensiero del poeta che tutta la poesia di Omero è
un elogio della
virtù e che
tutto in lui,
eccetto quanto è
marginale, porta a
questo. Emblematici quei versi in cui parla del condottiero dei
Cefalleni salvato nudo dal naufragio: prima infatti dice
che la principessa
solo al vederlo
provò un senso
di rispetto, tanto
era lontano dal doversi vergognare di apparire nudo,
proprio perché il poeta lo rappresentò adorno di virtù a mo’ di vesti; poi
anche dagli altri Feaci fu stimato tanto degno che, abbandonando la mollezza
nella quale vivevano, lo ammiravano e lo invidiavano tutti; e nessuno dei Feaci
avrebbe allora desiderato essere altro che Ulisse, e per giunta Ulisse scampato
da un naufragio.
In questi versi quell’interprete
del pensiero del poeta sosteneva che Omero dice quasi gridando: O uomini,
dovete preoccuparvi della virtù, che sopravvive al naufragio e farà apparire il
naufrago, restituito nudo alla spiaggia, più onorevole dei fortunati Feaci. Ed
è proprio così! E mentre gli altri beni non appartengono al proprietario più
che a qualsiasi altra persona, passando dall’uno all’altro come nel gioco dei
dadi, la virtù è l’unico possesso che non ci può essere tolto e rimane durante
la vita e anche
dopo la morte.
Appunto per questo
anche Solone mi
pare abbia detto
ai ricchi: «Noi non
scambieremo la nostra
virtù con la
loro ricchezza, poiché
quella è stabile,
le ricchezze degli uomini invece passano dall’uno
all’altro».
Un analogo concetto esprimono
quei versi di Teognide in cui dice che Dio, chiunque egli sia, fa pendere la
bilancia delle sorti
umane ora da una parte ora da
un’altra: «Ora sono ricchi, ora non possiedono nulla».
Ed anche
il sofista Prodico
di Ceo filosofeggia
con parole simili
in qualcuno dei
suoi scritti riguardo al
vizio e alla
virtù: anche a
lui dobbiamo volgere
la nostra attenzione,
perché non è un
autore da trascurare. Questo è pressappoco il ragionamento di Prodico, per quel
che ricordo del suo pensiero; le parole precise mi sfuggono, so solo che,
semplicemente e senza metrica, raccontava che quando Eracle
era giovanissimo, più
o meno della
vostra età, mentre
stava decidendo quale
delle due vie percorrere, o quella che attraverso la fatica conduce alla
virtù o l’altra ben più comoda, gli si presentarono due
donne: erano la
Virtù e il
Vizio. Esse, pur
tacendo, lasciavano immediatamente intravedere dal
loro atteggiamento la
differenza. L’una infatti,
ricercatamente acconciata per apparire
bella, straripava di
sensualità e si
trascinava dietro tutto
lo sciame dei
piaceri; ostentava tutto ciò
e, promettendo ancor
di più, cercava
di attrarre a sé Eracle. L’altra
invece era magra e smorta, austera nello sguardo, e diceva cose del tutto
diverse: non prometteva nulla di voluttuoso né di dolce,
ma sudori senza
fine e fatiche
e pericoli, per
terra e per
mare; premio di
tutto ciò era divenire dio, come diceva il racconto di
Prodico; e appunto questa Eracle finì per seguire.
VI
E quasi tutti coloro che si sono
guadagnati una certa fama per la loro saggezza, chi più chi meno, ciascuno
secondo le proprie forze, hanno tessuto nei loro scritti l’elogio della
virtù. Questi noi dobbiamo ascoltare, cercando di tradurre
nella nostra vita le loro parole. Perché colui che conferma con i
fatti quella filosofia
che altri predicano
solo a parole,
«è il solo
saggio, gli altri
sono ombre che si agitano».
Il che mi fa venire in mente il
paragone di un pittore che rappresentasse un uomo di straordinaria bellezza, e
quest’uomo fosse in realtà tale quale egli l’ha riprodotto nel suo ritratto.
Poiché lodare splendidamente la virtù in pubblico e fare lunghi discorsi
suquesto tema, e poi in privato stimare il piacere più della temperanza e il
guadagno più della giustizia, è cosa, direi, che si addice ad attori che
calcano la scena,
i quali spesso
recitano il ruolo
di re e di potenti,
mentre non sono
né re né potenti
e forse neppure
uomini liberi. Un
musicista del resto
non accetterebbe di
avere una lira scordata
né il direttore
di un coro
dei coristi che
non fossero perfettamente
intonati: e ci
potrà invece essere qualcuno che sia in disarmonia con se stesso e che
conduca una vita non coerente con le
sue parole? Ma
dirà con Euripide
che «la lingua
ha giurato, ma
il cuore ne
è rimasto esente»
e cercherà di sembrare onesto invece di esserlo? Ma questo è il massimo
della disonestà, se dobbiamo credere a Platone, ossia l’apparire onesti senza
esserlo!
VII
Accogliamo, pertanto, quelle
opere che contengono insegnamenti sulla virtù. E poiché le azioni virtuose degli
antichi sono giunte
a noi o
per tradizione diretta oppure
conservate negli scritti
dei poeti o dei prosatori, non dobbiamo trascurare l’utile che possiamo
trarne.
Per esempio, un individuo della
piazza insultava Pericle, senza che questi gli desse importanza; e così per
tutto il giorno continuarono l’uno a ricoprirlo d’insulti senza tregua, l’altro
a non farci caso. Scesa ormai la sera e fattosi buio, quando quello si decise a
malincuore ad andarsene, Pericle lo fece accompagnare con una torcia per non
sprecare neanche quell’occasione di esercitare la virtù.
Un altro
esempio. Un tale,
infuriato contro Euclide
di Megara, lo
minacciò giurando che l’avrebbe ucciso; di rimando, l’altro
giurò che l’avrebbe calmato e fatto desistere dalla collera. Quanto sarebbe
bene richiamare alla memoria qualcuno di questi esempi quando si è presi
dall’ira! Non bisogna infatti dar retta a quella tragedia che dice: «Basta lo
sdegno ad armare la mano contro i nemici».
La cosa
migliore sarebbe non
lasciarsi affatto trasportare
dall’ira e, se
ciò non è
facile, perlomeno non permettere di andar troppo oltre, usando come
freno la ragione.
Ma torniamo
ad occuparci di
esempi di virtù.
Un tizio, avventatosi
contro Socrate, il
figlio di Sofronisco, prese a
colpirlo senza risparmio in pieno viso. Socrate non oppose resistenza, ma
lasciò che il forsennato sfogasse tutta la sua rabbia, al punto che il viso gli
diventò tutto gonfio dai pugni. Quando poi quello smise di picchiarlo, si dice
che Socrate non fece altro che scriversi sulla fronte: Opera del tale, proprio
come uno scultore firma la sua statua. E questa fu la sua vendetta.
Credo sia
bene che i
ragazzi della vostra
età imitino questi
esempi, che sostanzialmente concordano con i nostri
principi. Il comportamento
di Socrate, infatti,
è molto simile
al nostro comandamento, che
ci prescrive di porgere l’altra
guancia a chi ci percuote. Altro che vendicarsi! L’esempio di Pericle e di
Euclide è invece in sintonia con quell’altro comandamento che insegna a
sopportare chi ci perseguita e a tollerare pazientemente la loro ira, e anche
conquello che ci esorta a pregare
per il bene
dei nemici, e
non a maledirli.
E così chi
si sarà formato
su questi esempi,
non riterrà impossibile attuare gli insegnamenti del Vangelo.
Non vorrei tralasciare neppure
l’aneddoto di Alessandro, il quale, dopo aver fatto prigioniere le figlie di
Dario, pur famose
per la loro
straordinaria bellezza, non
si degnò neppure
di vederle, poiché giudicava
vergognoso che chi
aveva vinto degli uomini si
lasciasse vincere da
donne. Ebbene, questo esempio coincide col precetto evangelico, secondo
cui: «Chi ha guardato una donna per desiderio, anche se di fatto non ha
commesso adulterio, solo per aver accolto il desiderio nel suo cuore, non è esente
da colpa».
Anche l’esempio di Clinia, uno
dei discepoli di Pitagora, è difficile credere che si accordi con i princìpi
cristiani per puro caso e non invece per volontà di emulazione. Che cosa fece?
Costui, pur essendogli possibile evitare
una multa di
tre talenti con
un semplice giuramento,
preferì pagare anziché giurare,
anche se avrebbe
giurato il vero.
Pare quasi che
avesse già udito
quel comandamento che ci proibisce di giurare.
VIII
Ma torniamo
a quello che
dicevo all’inizio, che
cioè non bisogna
accogliere tutto indistintamente,
ma solo quanto torna utile. Sarebbe infatti vergognoso evitare i cibi dannosi e
non fare invece alcun conto delle letture che nutrono la nostra anima,
ingurgitando tutto ciò che ci capita come
un torrente in
piena. Che senso
avrebbe che, mentre
un timoniere non
abbandona la nave
al capriccio dei venti ma
la dirige verso
il porto, un
arciere tenta di
colpire il segno,
un fabbro o un
falegname cercano di realizzare la loro arte, noi invece restassimo indietro a
tali artigiani nel saper riconoscere lo scopo del nostro agire? Non è infatti possibile che il
lavoro degli artigiani abbia un fine, mentre
la vita umana
non abbia uno
scopo, in vista
del quale tutto deve
fare e dire
colui che non vuole
assomigliare agli animali
privi di ragione.
Altrimenti, saremmo simili
a navi senza ancora, perché nessun criterio razionale presiederebbe alla guida
dell’anima, trasportati alla deriva qua e là lungo la vita.
È un po’ come avviene nelle gare
sportive o, se vuoi, in quelle musicali,
dove gli esercizi vengono fatti appunto
in funzione di quelle gare per le quali ci sono in palio dei premi; e a nessuno
che si
eserciti nella lotta
o nel pancrazio
interessa suonare la
cetra o il
flauto. Non faceva
di certo così Polidamante, ma,
prima di partecipare ai giochi olimpici, si allenava fermando i carri in corsa
e aumentava così la sua forza. Anche Milone non mollava la presa dal proprio
scudo, che aveva per di più unto d’olio, ma resisteva agli urti quasi fosse una
statua saldata col piombo. Insomma, tali esercizi servivano loro da
preparazione alle gare. Se costoro, trascurando la polvere e le palestre, si
fossero invece dedicati alle musiche dei cantori frigi Marsia e Olimpo,
avrebbero ottenuto premi e gloria o piuttosto non avrebbero evitato una
figuraccia nelle gare atletiche?
D’altro canto, nemmeno Timoteo
perdeva il suo tempo nelle palestre,
trascurando la musica. Altrimenti non gli sarebbe stato
possibile eccellere fra tutti nella musica, dove raggiunse un livello tale da
riuscire, a suo piacimento, ad esaltare
l’anima con un’armonia grave e austera per poi calmarla e intenerirla
con una tonalità più morbida. Si racconta ad esempio che, mentre suonava il
flauto nel modo
frigio davanti ad
Alessandro, lo eccitò
al punto che
nel bel mezzo
del banchetto questi corse alle
armi e poi, addolcendo il tono, lo riportò tra i commensali. Tanta è l’efficacia
che procura l’esercizio, sia nella musica sia nelle gare sportive, per il
raggiungimento dello scopo!
Siccome ho parlato di premi e di
atleti, vorrei ricordare che questi uomini, dopo aver sostenuto prove su
prove, aver in
mille modi accresciuto la
loro forza, aver
versato tanto sudore
negli allenamenti e ricevuto
tanti colpi a
scuola di ginnastica
e dopo essersi
scelto come regime
di vita non quello
più comodo, ma quello
prescritto dagli istruttori; insomma, per
non farla troppo
lunga, comportandosi in modo che tutta la vita prima della gara non sia
altro che un esercizio preparatorio ad essa, solo allora affrontano lo stadio e
si sottopongono ad ogni fatica e pericolo per conquistare una corona d’ulivo o
di apio o d’altro del genere ed esser proclamati vincitori dall’araldo.
E
noi, che per
la gara della
vita abbiamo in
palio premi meravigliosi
per quantità e
grandezza tanto che è
impossibile descriverli a
parole, pensiamo di
riuscire ad afferrarli
con una mano, dormendo fra due guanciali e vivendo in
tutta tranquillità? Ma allora nella vita avrebbe più valore la pigrizia; e
il famoso Sardanapalo
otterrebbe il primo
posto tra gli
uomini felici o
anche, se vuoi, quel Margite, che Omero –se proprio di
Omero è l’opera –disse non aver mai né arato né zappato né fatto
alcunché di importante
nella vita! Non è vero
piuttosto il detto
di Pittaco secondo
cui è difficile essere virtuosi?
Infatti, solo dopo esser passati attraverso molte prove, potremmo, e pure a
stento, ottenere quei beni, che, come dicevo, non hanno paragone in questo
mondo.
Perciò non dobbiamo darci
all’ozio né barattare grandi speranze col benessere di un momento, se non vogliamo
attirarci la vergogna
e subire castighi,
non tanto quaggiù
tra gli uomini
(per quanto anche questo non
sarebbe di poco conto per chi ha un po’ di senno), quanto in quei luoghi di
pena, sotto terra o in qualunque altro punto dell’universo si trovino. Chi
dunque involontariamente viene meno al proprio dovere, potrà anche ricevere da
Dio un qualche perdono; ma chi deliberatamente ha scelto il male, nessuna scusa
potrà sottrarlo ad una pena ben più severa.
IX
Che faremo allora? domanderà
qualcuno. Cos’altro se non avere cura dell’anima e trascurare tutto il
resto? Non dobbiamo
pertanto essere schiavi
del corpo se non
quanto è strettamente necessario. Bisogna invece dare
all’anima il meglio, liberandola, attraverso una tensione morale, da
quella specie di
prigione in cui si trova
per la comunanza
con le passioni
del corpo e, al tempo stesso, cercando di rendere il corpo
più forte delle stesse passioni. Diamo sì al ventre il necessario, ma non
quanto c’è di più piacevole, come fanno coloro che pensano solo a cercare
organizzatori di banchetti e cuochi,
setacciando tutta la
terra e il
mare, come se
dovessero pagare un
tributo ad un duro padrone. Fanno pena per questa loro frenesia, giacché non soffrono meno di coloro che sono condannati all’inferno: è come
cardare lana nel fuoco, portare acqua con un colabrodo e versarla in un
recipiente forato, senza vedere un termine a tali fatiche.
Aver poi eccessiva cura dei
propri capelli e dell’abbigliamento è, come diceva Diogene, o da infelici o da
delinquenti. E dico che dei ragazzi come voi dovrebbero ritenere vergognoso
essere ed avere la nomea
di bellimbusti esattamente
come prostituirsi o
insidiare le nozze
altrui. Che differenza infatti
potrebbe mai esserci, almeno per chi ha buon senso, tra l’indossare un abito di
lusso o
portare un cappotto
di scarsa qualità,
purché non gli
manchi qualcosa che
lo protegga dal freddo e dal caldo? Così, anche per le
altre cose, non bisogna procurarsi niente oltre il necessario né occuparsi del
corpo più di quanto lo richieda il bene dell’anima. Infatti, per un uomo, che
sia veramente degno di questo nome,
essere un vanesio
tutto dedito all’aspetto fisico
non è meno vergognoso che abbandonarsi senza dignità a qualsiasi altra
passione.
In effetti, far di tutto affinché
il corpo
goda del maggior benessere
possibile è tipico di chi non conosce
sé stesso e
non comprende quella
saggia massima, secondo cui
l’uomo non è quel che appare, ma occorre una saggezza superiore, in virtù della
quale ciascuno di noi possa conoscere chi mai
sia. E a chi non
ha reso sgombra
la propria mente
raggiungere questa autocoscienza
è più difficile che fissare il
sole a chi è malato agli occhi. La purificazione dell’anima, poi, per dirvela
in poche parole ma in modo esauriente, consiste nel disprezzare i piaceri dei
sensi: non soddisfare gli occhi con le
vuote esibizioni degli
illusionisti oppure con
spettacoli di corpi traboccanti
di sensualità e non riempirsi le orecchie di una musica che ti rovina
l’anima. Da una musica del genere infatti sono solite derivare passioni
meschine e degradanti.
Noi dobbiamo cercare invece
quell’altro genere di musica, che è migliore e
che porta ad una
condizione migliore, quella
cioè usata da
David, il poeta
dei canti sacri,
per placare, a
quel che dicono, la
follia del re.
Raccontano che anche
Pitagora, imbattutosi in
un’allegra comitiva di ubriachi, chiese al flautista che li guidava
di cambiare musica e di intonare il modo dorico: a quella melodia tornarono
in sé al
punto che, buttate
via le corone,
se ne ritornarono
a casa pieni
di vergogna. Altri invece
al suono del
flauto vanno in
delirio come dei coribanti o
delle baccanti. Tanta è la
differenza tra l’ascoltare una musica sana ed una cattiva! Perciò dovete
evitare la musica che oggi è di moda proprio come quanto c’è di più vergognoso
al mondo.
Quanto poi a spruzzare nell’aria
profumi di ogni tipo che danno piacere all’odorato e a spalmarsi di creme,
mi vergogno anche
solo di proibirvelo.
Che cosa poi
si potrebbe dire
sul fatto che
non bisogna cercare i piaceri del
tatto e del gusto, se
non che questi costringono chi li ricerca a vivere come animali, dediti
come sono al ventre e a quel che c’è più giù?
In una
parola, chi non
vuole sprofondare nei
piaceri sensuali come
nel fango, non
deve preoccuparsi del corpo
o averne cura
solo in quanto,
come dice Platone,
ci dà una
mano per acquistare la sapienza.
Analogo è il pensiero di Paolo, il quale ci ammonisce che non bisogna avere
alcuna cura del corpo per non alimentare le passioni. Che differenza c’è tra
chi si preoccupa del benessere del corpo senza avere alcuna stima dell’anima
che pure ne è padrona, e chi si cura degli strumenti senza occuparsi per niente
dell’arte che si esprime con essi? Occorre al contrario frenare il corpo,
tenerne a bada gli assalti come quelli di una belva e usare la ragione come una
frusta per placare i tumulti che da esso arrivano all’anima; e non, allentando
ogni freno del
piacere, lasciare che la ragione
ne sia travolta, come un auriga trascinato dalla furia di cavalli sbrigliati.
Anche di
Pitagora dovete ricordarvi,
il quale, notando
che uno dei
suoi discepoli con la
ginnastica e con
la buona tavola
ingrassava troppo, gli
disse: «Allora, quando
la smetterai di renderti
il carcere più
duro?». Proprio per
questo dicono che
anche Platone, prevedendo
il danno che poteva derivare dal
corpo, scelse a bella posta l’Accademia, luogo insalubre dell’Attica, per
inibire la troppa floridezza del fisico come si fa con l’eccessivo rigoglio
delle viti. Ed io stesso ho sentito
dei medici dire
che il troppo
benessere è pericoloso.
Poiché dunque la
cura eccessiva del corpo è dannosa al corpo stesso e per di
più è d’impaccio all’anima, è chiaramente
una follia assoggettarsi ad esso
e rendersene schiavi. Se invece ci abituassimo a ridimensionarlo, nessuna altra
cosa al
mondo sarebbe in
grado di attrarci.
A che potranno
ancora servire infatti
le ricchezze, una volta
disprezzati i piaceri
del corpo? Francamente
non saprei, a
meno che non
procuri un qualche piacere far la guardia a tesori
nascosti, come fanno i draghi nelle fiabe.
Chi è
stato educato a
rapportarsi a queste
cose con lo
spirito di una
persona libera, sarà
ben lontano dallo scegliere di fare, nelle parole e nei fatti, qualche cosa di basso e vergognoso.
Poiché tutto ciò che
va oltre la
necessità –fossero anche le
pepite della Lidia
o il frutto
delle formiche aurifere –, tanto
più costui lo
disprezzerà, quanto meno
ne avrà bisogno. E
determinerà lo stesso bisogno in
base alle esigenze
della natura, e
non secondo i
piaceri. Quelli che
invece eccedono i limiti
del necessario, analogamente
a quanti scivolano
lungo un pendio
non avendo alcun
punto d’appoggio, non smettono mai di
correre a precipizio,
ma quanto più
accumulano, di altrettanto hanno bisogno o anche di più per
il soddisfacimento dei loro piaceri, secondo quanto dice Solone, figlio di Esecestide:
«Non esiste per gli uomini un termine stabilito alla ricchezza».
Su questo punto ci fa da maestro
anche Teognide, quando dice: «Non amo arricchirmi né me lo auguro, ma mi sia
concesso di vivere di poche cose e senza malanni».
Io ammiro
anche in Diogene
il disprezzo totale
delle cose umane:
egli si dimostrò
più ricco perfino del
Gran Re, perché
gli occorreva molto
meno di lui
per vivere. E
noi, se anche
non abbiamo le ricchezze di un Pizio di Misia e tanti e tanti ettari di
terreno e un numero infinito di capi di bestiame tanto da non potersi contare,
non saremo comunque soddisfatti? In
realtà io credo che non bisogna
desiderare la ricchezza
che non si
ha; e quando
la si possiede,
non bisogna vantarsi tanto di possederla, quanto di
saperla bene usare. A questo proposito calza bene l’aneddoto di Socrate, il
quale ad un uomo ricco che si vantava dei propri beni disse che non lo avrebbe
ammirato prima di aver dimostrato di
saperne usare. E
se Fidia e
Policleto si fossero vantati dell’oro
e dell’avorio, con cui fecero l’uno la statua di Zeus agli Elei e
l’altro quella di Era agli Argivi, si
sarebbero resi ridicoli
nell’andar fieri di
una ricchezza altrui
anziché dell’arte che
aveva reso quell’oro più bello e
più prezioso. E noi, pensando che la virtù umana non basti da sola come
ornamento, crediamo di agire con minor ridicolo?
Oppure disprezzeremo le
ricchezze e disdegneremo
i piaceri dei
sensi per poi
cercare le adulazioni e le
lusinghe, imitando così l’ipocrisia e la scaltrezza della volpe di Archiloco?
Ma non c’è nulla che un uomo saggio debba evitare di più che vivere secondo
l’opinione altrui e guardare a ciò
che pensa la
gente anziché farsi
guidare nella vita
dalla retta ragione.
Cosicché, anche se dovesse contraddire il mondo intero,
essere disprezzato e correre dei rischi per amore dell’onestà, niente lo
distoglierebbe dallo scegliere ciò che ha riconosciuto come giusto.
Chi non
fosse così, in
che cosa potrebbe
essere diverso da
quel famoso mago
egizio, il quale, tutte le volte che lo voleva,
diventava pianta, animale, fuoco, acqua o qualsiasi altra cosa? Infatti, un
individuo del genere
ora loderà la
giustizia davanti a
quanti la onorano,
ora invece sosterrà
il contrario non appena s’accorge che è l’ingiustizia ad essere tenuta
in onore, proprio come fanno gli adulatori. E come il polpo, a quel che si
dice, cambia colore a seconda del fondale su cui si trova, così anche lui
cambierà parere a seconda delle opinioni delle persone con cui si trova.
X
Ma queste
cose noi le
impareremo in maniera
più completa nella nostra
bibbia; per ora accontentiamoci di tracciare un abbozzo
della virtù ricavandola dagli insegnamenti profani. Infatti, chi sa accuratamente
raccogliere l’utile da ogni cosa fa come i grandi fiumi che arricchiscono la
loro portata ricevendo l’acqua dai
vari affluenti. Anche
il detto di
«aggiungere il poco
al poco», conviene intenderlo
in riferimento non
tanto all’aumento delle
ricchezze quanto a
qualsiasi conoscenza. Così Biante al figlio, che salpava per l’Egitto e
gli domandava che cosa dovesse fare per
renderlo quanto mai
felice, rispose: Procurati
provviste per la
vecchiaia», intendendo per provviste la virtù, pur limitandola entro
piccoli confini, in quanto ne riduceva l’utilità ai ristretti termini della
vita umana.
Per conto
mio, se anche
mi si parlasse
della vecchiaia di
Titono o di
Argantonio o anche
di quella del più longevo al mondo, cioè Matusalemme, il quale si dice
che sia vissuto 970 anni, e se anche si calcolasse tutto il tempo dal momento
in cui l’uomo cominciò ad esistere, ne riderei come di un
pensiero puerile, considerando
quella lunga età
senza tramonto, di
cui non è
possibile col pensiero concepire un
termine più di quanto non si possa supporre una fine per l’anima immortale.
Per tale
vita io vorrei
esortarvi a procurarvi
delle provviste, smuovendo
ogni pietra, come
dice il proverbio, da cui possa
venirvi un qualche aiuto in tal senso.
E se ciò è difficile e richiede
fatica, non per questo dobbiamo perderci d’animo; ma, ricordandoci del
consiglio di chi disse che ciascuno deve scegliersi il tipo di vita più alto e
aspettare che diventi piacevole con l’abitudine,
dobbiamo puntare al meglio.
Sarebbe infatti vergognoso
trascurare l’occasione presente e rimpiangere poi il passato, quando
lamentarsi non servirà più a nulla.
Ebbene, delle cose che considero
più importanti alcune ve le ho dette, ma
altre ve ne indicherò nel corso di tutta la vita. E voi, fra le tre tipologie
di malati, cercate di non somigliare a quelli che sono incurabili e non fate
che la malattia dell’animo sia analoga a quella di chi è malato nel corpo.
Infatti, quelli che
soffrono di lievi
malattie, vanno da
soli dai medici;
quelli che sono
affetti da malattie più
gravi, li chiamano
a casa loro;
quelli infine che
sono presi da
una forma di
delirio assolutamente incurabile
non li
fanno nemmeno entrare
quando vanno a
visitarli. Guardatevi che questo non succeda ora a voi, respingendo
chi viene a darvi i consigli più saggi.
Pdf aggiunto alla lista: https://catenaaureasintesi.blogspot.com/2019/01/pdf-dei-santi-e-sui-santi.html
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