Profilo biografico di San Gregorio Magno Papa
Dall'Udienza Generale del 4 giugno 2008 di Papa Benedetto
XVI
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Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.
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Fu uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno
dei quattro dottori dell’Occidente: Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma
tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande.
Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a
Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si
distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento
alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia
erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito
(535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata
da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza
spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano
poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e
quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa
quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.
Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che
aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo
prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi,
gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi
amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase
un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai
Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la
diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita
tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni
carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco,
trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di
questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore
nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di
nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle
preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo
felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena
immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della
Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.
Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.
Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il
nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una
visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una
straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici
quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che
l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione
grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il
quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo
tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici,
e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che
affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo
in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa
dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente
pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal
presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da
sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del
buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo
con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul
rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi.
Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile
dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in
Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione
evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino
di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare
in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.
Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa
si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata
trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di
tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile
stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu
ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa
intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a
differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente
cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina,
nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei.
Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la
via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la
basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di
farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima
cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio
Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza
circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli
obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere
l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda
all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra
Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella
penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra
i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella
complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere
l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.
Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa
Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale.
Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia,
specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel
bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò
riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e
tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera
di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della
Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo,
fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e
della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni
dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode,
fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti
disonesti il volto della Sposa di Cristo.
Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la
malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni.
I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato
seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole
così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue
omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo.
Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum
sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo
di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento
autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto
attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in
cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita
e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per
il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il
desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo
egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo.
In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza.
Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove
viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.
Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione
di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa
nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario –
il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere –
egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si
distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il titolo latino di
Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi
un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio
per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più
nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del
pontificato con finalità chiaramente programmatiche.
Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo
anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato
di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende
farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente
essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere
per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti
esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con
intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava,
il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il
nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo
mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa
funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare
il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione
dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà
intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà
soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo
studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo,
consentendo di entrare realmente nella profondità del testo, l’umiltà resta
indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e
si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di
Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce
all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella
espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue
del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo
queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del
suo cuore e perciò ancora oggi parla a noi.
Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale
a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle
tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica
e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura.
Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa
prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi
significativi - sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca
i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che
spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta,
consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione,
pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa
la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende
nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa
traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo
il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di
Summa della morale cristiana.
Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui
Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il
tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato;
l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica
dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si
celebravano le “stazioni” - particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti
dell’anno liturgico - o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore,
che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”:
non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi
“predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di
Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza.
L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in
Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce
per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da
qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle
buone opere.
Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola
pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone
di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A
tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i
doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati
chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero
assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa
trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è
innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere
innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa
costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale
richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla
situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di
fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la
valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da
qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto
con la gente del suo tempo e della sua città.
Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il
Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che
l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene
compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando
ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie
insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna
considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose
indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura
delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe
grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in
greco e in anglosassone.
Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui
all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti
da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra
il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo
prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben
potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è
accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo
agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La
materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e
formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il
senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità
dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi
tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente
dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica
sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in
tutta evidenza.
Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le
sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui
conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a
dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è
significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel
bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un
avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona
ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide
delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce
della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di
orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina
illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.
Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle
relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di
Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne
e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la
legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua
situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del
Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima
autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa
universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà
dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un
Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era
decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere - è questa la sua
espressione - servus servorum Dei. Questa parola da lui coniata non era nella
sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e
di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è
fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era
convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e
così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in
permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi
servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe
farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche
a noi la misura della vera grandezza.
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