Con 225 voti favorevoli, 166 contrari e 11 astenuti, l’aula della
Camera ha approvato la proposta di legge che reputa come legittima
difesa la reazione violenta alle rapine: purché avvengano di notte,
altrimenti la difesa non è più legittima. Sorvolando sul fatto che è
ridicolo pensare a una legge, come quella proposta, che non sia una
norma ma un’indicazione generale che permette un atto lecito come
l’autodifesa in alcuni momenti (di notte) e lo vieta in altri (di
giorno), mostreremo perché la difesa sia moralmente legittima – sia di
giorno sia di notte – da parte di chi protegge la propria abitazione da
un aggressore iniquo.
Per esporre la nostra tesi intendiamo addentrarci, in maniera lieve e
sintetica, in alcune questione teoriche della morale per poterle
applicare al caso particolare di una legge sull’autodifesa.[1]
La domanda in questione è la seguente: con quale criterio si deve
compiere una valutazione morale circa la liceità dell’autodifesa?
Per prima cosa con Tommaso d’Aquino diremo che «Gli atti umani si
denominano buoni o cattivi in rapporto alla ragione; poiché, […], il
bene umano consiste nell’essere “conforme alla ragione”, e il male
nell’essere “contrario alla ragione”»[2].
Vi sono tre elementi che devono essere presi in considerazione nella
valutazione di un atto umano: l’oggetto dell’atto, il fine e le
circostanze. L’oggetto è l’atto esteriore ragionevolmente scelto
mediante la propria libera volontà. Non si tratta soltanto della materia
esteriore ma anche del fatto che un determinato atto venga compiuto da
un particolare soggetto che agisce per specifiche motivazioni. Il fine
risponde al perché il soggetto compie un tale atto ed è costituito da
due intenzioni: l’intenzione prossima, che indica la specie
dell’oggetto, e l’intenzione ulteriore, che invece stabilisce il fine
decisivo proprio di un atto. Nella prassi l’atto ha la priorità sul
fine, ma nell’intenzione il fine ha la priorità sull’atto. Le
circostanze si suddividono in sette classi: chi, cosa, dove, con che
mezzo, perché, come, quando. Queste possono influire in tre modi sulla
moralità di un atto. In primo luogo, alcune circostanze sono talmente
trascurabili che hanno un valore neutro e sono del tutto ininfluenti nel
giudizio morale dell’atto. Secondo, alcune circostanze hanno
un’influenza accidentale sull’atto e costituiscono un valore indiziale;
si suddividono generalmente in aggravanti e scusanti. Infine, vi sono
alcune circostanze che, essendo oltremodo rilevanti, modificano la
natura stessa dell’atto.
Per ogni atto, oltre alle suddette condizioni, bisogna considerare
anche le conseguenze prodotte. Gli effetti principali devono essere
inevitabilmente presi in considerazione, mentre gli effetti secondari
possono esserlo. Gli effetti negativi di un atto generalmente ricadono
sulla responsabilità di chi lo ha compiuto, tuttavia in alcuni casi se
gli effetti negativi sono previsti ma non voluti e sono inscindibili
dagli effetti positivi di un atto, si potrà dare il caso che questi non
ledano l’innocenza di chi ha compiuto l’atto. Ad esempio, un crociato
che avesse ammazzato un nemico per difendere la Cristianità, per
raggiungere l’effetto positivo (la salvaguardia della propria civiltà)
avrebbe dovuto necessariamente causare anche un effetto di per sé
negativo (l’uccisione di altri uomini) ma non per questo sarebbe stato
colpevole.
Appellandoci al principio del duplice effetto, che ritiene moralmente
lecita anche un’azione con un effetto buono e uno cattivo (purché non
sia voluto come fine ulteriore della propria azione), diremo che le
quattro condizioni che rendono un atto legittimo, secondo lo schema del
domenicano Giovanni di San Tommaso (1589-1644), sono:
- L’atto stesso è buono o quantomeno neutro, basta che non sia cattivo.
- L’effetto cattivo non è oggetto dell’intenzione.
- L’effetto buono non è prodotto tramite l’effetto cattivo.
- L’effetto buono è più importante dell’effetto cattivo.
Scrive infatti San Tommaso d’Aquino:
«Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei
quali è la conservazione della propria vita; mentre l’altro è
l’uccisione dell’attentatore. Orbene, codesta azione non può
considerarsi illecita, per il fatto che con essa s’intende di conservare
la propria vita: poiché è naturale per ogni essere conservare per
quanto è possibile la propria esistenza. Tuttavia un atto che parte da
una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al
fine. Se quindi uno nel difendere la propria vita usa maggiore violenza
del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con
moderazione, allora la difesa è lecita»[3].
La lucidità dell’Aquinate mostra come un’azione che abbia per fine la
difesa della propria vita non sia per sé stessa illegittima, nemmeno
nel caso in cui abbia come effetto l’uccisione dell’aggressore; ma
questa azione può diventare illegittima per eccesso di reazione. Non
esiste dunque una difesa illegittima (in linea di principio la difesa è
legittima), ma una difesa sproporzionata. Le guerre statunitensi nel
Medioriente portate avanti dall’amministrazione Bush e in seguito
dall’amministrazione Obama, ad esempio, costituiscono una difesa del
tutto illegittima poiché nettamente sproporzionata rispetto al fine con
il quale intendevano giustificarla (la protezione del proprio Paese).
Ma allora come si può valutare se la difesa violenta e talvolta anche
fatale (per l’aggressore) non sia illegittima per eccesso di reazione?
Per formulare questo giudizio non resta che passare alle applicazioni
pratiche dei criteri di valutazione sopraindicati.
L’oggetto è la difesa della propria incolumità e dei propri beni
mediante l’uso della violenza. Il diritto naturale suggerisce che la
propria vita, la vita dei propri cari e i beni contenuti nella propria
dimora, rappresentano difatti un valore talmente alto per ogni soggetto
che è pienamente in suo diritto difendersi qualora venissero messi a
repentaglio ingiustamente.
È semplice intuire che l’intenzione ulteriore dell’atto, ossia il
fine, è la preservazione della propria vita e dei propri beni, mentre la
violenza commessa all’aggressore iniquo rappresenta soltanto
l’intenzione prossima. Se il soggetto mostrerà una foga apparentemente
eccessiva nel commettere violenza, si è tenuti a ricordare, come abbiamo
spiegato in precedenza, che, siccome nell’esecuzione vi è una priorità
dell’atto sul fine, è naturale che, nel tentare di difendersi, il
soggetto possa impiegare il massimo sforzo nell’assicurarsi di avere
successo nell’atto violento di difesa, quasi che uccidere fosse la sua
vera intenzione, ma questo sarà giustificato se il fine sarà retto,
poiché nell’ordine dell’intenzione sussiste una priorità del fine
sull’atto.
Nella valutazione del giudizio morale, le circostanze sono favorevoli
al soggetto che si difende, poiché egli non ha scelto di trovarsi in
una tale situazione e si trova gravemente minacciato, colto di sorpresa,
impaurito senza averne la minima colpa. Queste circostanze possiedono
un tale valore indiziale da poter affermare serenamente che, oltre
all’atto di per sé legittimo dell’autodifesa, vi sono anche diverse
scusanti che possono giustificare l’atto in maniera quasi inoppugnabile.
Passiamo al principio del duplice effetto. Vi sono le quattro
condizioni che rendono la difesa nella propria abitazione, sempre
legittima (sebbene possa essere sproporzionata).
- L’atto stesso è buono o quantomeno neutro, basta che non sia cattivo. L’atto di difesa dall’aggressore subentrato illecitamente nella propria dimora è, di per sé, un atto sempre buono e certamente non cattivo. Si tratta infatti di preservare dei beni di inestimabile valore, come la vita dei propri cari.
- L’effetto cattivo non è oggetto dell’intenzione. Nel caso in cui il soggetto che si difende dovesse causare eccessivi danni, se non addirittura l’uccisione dell’aggressore, non vi sarebbe alcun motivo per sospettare che l’oggetto finale dell’intenzione fosse di ammazzare il ladro, giacché è evidente che è il ladro che ha agito per primo attentando la vita del soggetto, il quale può solo agire d’istinto mediante l’autodifesa, con l’intenzione legittima di salvare la propria vita e i propri beni.
- L’effetto buono non è prodotto tramite l’effetto cattivo. Si potrebbe incorrere nell’errore di ritenere che l’effetto buono (salvarsi la vita) sia prodotto tramite l’effetto cattivo (l’uccisione dell’aggressore). In realtà, l’essenza di un atto si definisce a partire dal suo oggetto e non dai suoi effetti. Chi si difende non sceglie di uccidere l’aggressore ma di difendere la propria vita; ed è questa l’intenzione di base che determina l’oggetto dell’azione.
- L’effetto buono è più importante dell’effetto cattivo. Anche in questo caso è piuttosto facile dedurre che il fine ulteriore, ovvero l’effetto più importante per il difensore, è certamente buono, perché è sempre buono e legittimo difendersi dall’assalitore ingiusto. Sarebbe assurdo suppore che il difensore tenesse maggiormente all’effetto cattivo (l’uccisione) piuttosto che all’effetto buono (il salvataggio della propria vita), poiché ciò comporterebbe che il difensore giudicasse meno importante ciò che ha di più caro (la propria vita/i propri beni) rispetto alla morte di uno sconosciuto qualsiasi che gli è piombato in casa. Salvo incredibili squilibri mentali nel soggetto difensore, ciò non si potrebbe mai verificare.
Ma c’è dell’altro. La legge attuale rischia di essere estremamente
ingiusta, perché potrebbe addirittura indurre il soggetto ingiustamente
aggredito a comportarsi in maniera immorale. Infatti, in una situazione
come la rapina, una mancata difesa – che potrebbe comportare benissimo
la propria morte, se non perfino la morte di un proprio famigliare –
costituirebbe, in certe occasioni, indipendentemente se sia giorno
oppure notte, una vera e propria omissione da parte del soggetto. Il
non-compimento di un atto (come la legittima difesa, nel nostro caso), è
considerato un’immorale omissione se: il soggetto è capace di compiere
l’azione, ha una reale occasione di compierla ed è tenuto a compierla.
Ora, nel caso dell’intrusione di un malfattore, il soggetto aggredito,
potrebbe avere non soltanto il diritto ma anche il dovere di agire con
la violenza, se ne fosse capace e ne avesse la possibilità, giacché egli
avrebbe il dovere di difendere non solo se stesso, ma soprattutto la
propria famiglia, qualora fosse con lui.
Detto ciò, se ne può concludere che in linea di principio la difesa
tramite la forza all’interno della propria casa è un atto
sostanzialmente legittimo. Ma è doveroso mantenere la prudenza di
Aristotele, grande maestro di etica, che insegna come nella realtà ogni
atto deve essere valutato a sé: ci si può soltanto limitare a trarre dei
princìpi generali che sono orientativi e mai possono pretendere di
includere sistematicamente le indefinite possibilità che sono
virtualmente racchiuse in una situazione specifica.
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[1] Ci rifaremo, nel corso dell’articolo, al seguente studio: KONRAD, Michael, Dalla felicità all’amicizia. Percorso di etica filosofica, Lateran University Press, Città di Castello (PG) 2007.
[2] STh I-II, 18, 5, co.[3] STh II-III, 64, 7, co.
Fonte: https://www.radiospada.org/2017/05/sulla-legittima-difesa-2/
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