L'uso delle spezie, l'oro e i quattro elementi in cucina, i trucchi dei
cuochi: cinque curiosità sull'alimentazione del Medioevo che potrebbero
lasciarvi allibiti.
Qualche tempo fa mi sono
imbattuto in un interessantissimo volume intitolato Mangiare nel Medioevo.
Alimentazione e cultura gastronomica nell’età di mezzo (edizioni Sarnus) di
Maria Concetta Salemi, una storica che in diverse pubblicazioni si è occupata di
cultura di cibo. Se ve ne parlo è perché il libro – oltre a offrire una
panoramica completa degli usi alimentari della lunga e varia età di mezzo – è
anche una vera fucina di curiosità gustosissime (è proprio il caso di dirlo),
almeno quanto è capace di sfatare luoghi comuni persistenti circa la cultura
gastronomica dei “secoli bui” (lo metto tra virgolette perché è un cliché, come
ormai lo è anche specificarlo: prima di tirarvene fuori voglio precipitarvi in
un inception di cliché).
Le spezie
Forse il cliché più duro a morire
è quello che vuole le spezie usate per mascherare gli odori di pietanze andate
a male, soprattutto le carni. In verità, ci dice Maria Concetta Salemi, la
principale funzione delle spezie, in effetti usatissime in epoca medievale e
molto varie (era in gran voga tra queste un sorprendente zenzero, che arrivava
essiccato dopo un lunghissimo viaggio sulla Via della Seta), era quella di
distinguere i piatti plebei da quelli riservati alle classi abbienti, come
dimostra il motto che sigilla molte ricette di quell’epoca: “Metti spezie e dà
al tuo signore”. Sarebbero dunque assai inconsistenti le teorie circa il loro
ruolo (e l’altrettanto indimostrato abuso) in cucina: non servirebbero infatti
per conservare il cibo (funzione che, pepe escluso, non hanno) e non erano
usate per mascherare l’odore di carni andate a male.
L’alimentazione medievale nacque
dal progressivo fondersi di due modelli culturali lontani, quello della Roma
antica, una società agricola, stanziale e raffinata, la cui cucina era basata
sul consumo di cereali e ortaggi, condita con l’olio e imbevuta di vino; e
quella giunta dopo l’invasione dei popoli delle steppe: come Goti, Vandali e
Longobardi, il cui menu si fondava principalmente sul bosco e sull’incolto,
poiché i nuovi arrivati non erano usi arare la terra e traevano dai boschi e
dall’allevamento gran parte del proprio nutrimento. Era una dieta a base di
carne, dunque, quella dei barbari: “Carne che era anche simbolo di vigore
fisico e forza vitale, carne cotta nel suo grasso e mangiata in enormi
quantità, irrorata da latte di giumenta, sidro, cervogia. Pochi cereali,
pochissimi frutti soprattutto spontanei”. Questa sintesi, durata secoli, rese
verso la fine del Medioevo le dispense più simili di quanto possiamo immaginare
alle nostre, allora si mangiavano infatti “tutte le verdure, inclusi gli
asparagi e le carote, ma con l’esclusione degli ancora sconosciuti pomodori;
tutti i cereali eccetto il mais; vari tuberi e radici ma non le patate; tutti i
legumi ma non i fagioli, di cui erano noti solo quelli ‘dall’occhio’, che
tuttavia appartengono a una famiglia diversa; tutta la frutta tranne le arance
(di cui si conosceva solo la qualità amara) e, naturalmente, i mandarini e gli
esotici ananas, mango, papaia, kumquat”. Ma, a differenza di quanto succede per
noi, a farla da padrone tra gli ortaggi erano cavoli e rape. Per quanto
riguarda i pesci, contrariamente a quanto avveniva nella Roma antica in cui
come noto erano preferite – e addirittura allevate – specie di mare (i romani:
buongustai da 2000 anni), sulle tavole medievali si trovavano principalmente
pesci d’acqua dolce, che erano in ogni caso serviti come cibo raffinato ed
esclusivo, adatto alle tavole più ricche e addirittura, in Inghilterra,
riservato ai sovrani.
L’oro
Un’altra curiosa usanza riservata
al desco dei più abbienti era l’uso, benché raro, di infilare dell’oro (sì,
avete letto bene) in alcune pietanze, un toccasana perfetto – secondo loro –
per combattere una serie di malattie. Però, avverte Salemi sulla scorta degli
antichi compendi: “quando si mette oro in un pasticcio, lo si deve fare di
nascosto per evitare che il pasticcio sia scambiato dal fornaio”.
A proposito di pesci vi copio una
brevissima ricetta, il libro ne è disseminato (e in fondo c’è una sezione
dedicata per chi volesse cimentarsi in una cena a tema: fatto salvo, avverte
Salemi, che riprodurre gli esatti gusti è ormai impossibile, essendo troppo
cambiate le materie prime in secoli di progressivi raffinamenti produttivi), in
realtà la ricetta non riguarda dei pesci in senso stretto ma dei molluschi: le
ostriche. Potete provare a prepararla una volta che non mi invitate a cena.
Per quocere ostrighe
Le ostrighe si quoceno sopra la bracia viva e quando si aprano sono cotte, e così si possono magnare e se le vuoi altramente cavale fuora di quella sua cortice, e frigile un pochetto in olio, et metteravi di sopra dello agresto e delle spetie forte.
Le ostrighe si quoceno sopra la bracia viva e quando si aprano sono cotte, e così si possono magnare e se le vuoi altramente cavale fuora di quella sua cortice, e frigile un pochetto in olio, et metteravi di sopra dello agresto e delle spetie forte.
I quattro elementi in cucina
Un grande e forse insospettabile
asse di coordinate in grado di organizzare tutta la cucina medievale è una
teoria dal sapore quasi magico che arrivava dritta dritta dall’antichità:
quella dei quattro elementi. Per gli uomini del Medioevo terra, acqua, aria e
fuoco erano presenti in quantità e qualità variabili in ogni elemento del mondo
determinandone la natura.
“Ciò vale anche per gli esseri
umani (la carne è terra, il sangue è l’acqua, l’alito l’aria, il calore il
fuoco) e il loro ‘temperamento’: freddo e secco come la terra quello del
melanconico, freddo e umido come l’acqua quello del flemmatico, caldo e umido
come l’aria quello del sanguigno, caldo e secco come il fuoco quello del
bilioso e collerico”.
Tutto ciò si proiettava anche
sulla cucina e sulla salute, una delle principali preoccupazioni del cuoco
medievale era chiedersi quale fosse il metodo di cottura migliore per
correggere gli umori in eccesso in ciascun alimento, che “si inumidisce se
bollito, si riscalda se brasato, si asciuga se arrostito. […] I pesci invece,
tutti freddi e umidi, dovevano essere fritti. Facevano eccezione l’anguilla, da
uccidere seppellendola nel sale per poi cuocerla nel vino, e la pregiata
lampreda, da affogare e bollire nel vino prima di arrostirla con erbe e
spezie”.
Lo stomaco è una pentola, quindi bisogna fare aperitivo (?!)
Tutto ciò aveva dirette
conseguenze non solo sulle ricette ma anche sull’ordine col quale erano
proposte, e la cosa sorprendentemente ci riguarda ancora, visto che la sequenza
con cui organizziamo i nostri pasti discende direttamente da quella medievale.
A mettere a punto questa scaletta ha collaborato un’altra convinzione, quella
che vedeva lo stomaco alla stregua di una pentola in cui si sarebbe dovuto
finire di cuocere il cibo. Pertanto, essendo una pentola, “era indispensabile
‘scoperchiarla’ con cibi ‘aperitivi’, stimolanti e leggeri: frutta fresca dal
potere lassativo, verdure cotte o crude condite con olio e aceto, uova poco
cotte con spezie e pinoli, miele e zucchero.
A seguire, cibi sempre più
pesanti e perciò più lenti ad essere digeriti, con qualche piccola accortezza:
quelli secchi dopo quelli umidi per poterne assorbire il liquido in eccesso, i
formaggi freschi dopo la carne per le loro virtù sfiammanti, e così via. E
dunque, in successione, minestre e zuppe, carni leggere, carni pesanti,
pasticci. Perché per richiudere la pentola consentendo l’avvio del processo ‘di
cottura’, ossia di digestione, sono necessari alimenti astringenti come
formaggio stagionato e frutta aspra, o dal ‘temperamento’ caldo, quali il vino
speziato, dolci zuccherati, anici e coriandolo canditi”.
I trucchi dei cuochi
Un’ultima curiosità che vi
segnalo concerne i trucchi usati dagli chef (che allora erano cuochi, mica come
ora) dell’età di mezzo per venire a patti con – o aggirare – i dettami
riguardanti l’alternanza liturgica. Per quanto concerne i grassi di cottura, per
esempio, olio e lardo si sceglievano più che per le specificità locali, in
rispetto delle privazioni imposte dal calendario cattolico. Le restrizioni a
questo riguardo costituivano una vera sfida all’inventiva del cuoco medievale,
soprattutto sulle tavole dei ricchi, dove si operavano stupefacenti operazioni
di maquillage. Era questa “una sfida affrontata a colpi di brodo di piselli
usato al posto di quello di manzo per ‘colare’ le spezie, di amido o latte di
mandorle invece dei tuorli e del fegato macinato per legare il pane nelle
salse, di zafferano per colorarne una che avrebbe previsto il rosso d’uovo, di
spiedini di frutta secca e pasta di mandorle che imitassero la carne”.
Continua Salemi raccontando come
“di finzione in finzione, si procedeva creando fantastiche illusioni, di cui
servirsi soprattutto per gli entremets. Si riproducevano animali, si fissavano
quelli cotti in pose naturali che li facessero sembrare vivi, li si rivestiva
con la loro stessa pelle, che a volte tuttavia conteneva un animale diverso
oppure, in tempo “di magro” impasti di legumi. Lo stesso per penne e piume, che
potevano essere scambiate tra un volatile e l’altro creando piacevoli sorprese.
Si creavano vasi fioriti, si realizzavano ricci con aculei di mandorle oppure
porcospini infilzando punte di pasta fritta in stomaci di maiale farciti, si
combinavano animali diversi creando ibridi stupefacenti e fantastiche figure”.
Andrei avanti ancora un po’ ma
credo di aver reso l’idea, essendo ora di pranzo non mi resta che correre a pagina
134 e grazie a un bel viaggio nel tempo servirmi di una invitante torta
d’anguille fresche, sarà certamente deliziosa.
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