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sabato 16 maggio 2020

Si Trova a Santa Tecla l'Affresco con le Icone più Antiche di San Paolo e San Pietro


L’affresco è stato scoperto il 19 giugno 2009 durante i restauri nelle catacombe romane di Santa Tecla coordinati dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra – È la più antica icona di san Paolo – Tra i dipinti della fine del IV secolo nelle ultime ore è emersa anche la figura di san Pietro.

di Fabrizio Bisconti

Venerdì 19 giugno. Mentre si procede a un lento e accurato restauro della decorazione pittorica di un cubicolo delle catacombe romane di Santa Tecla sulla via Ostiense, una sensazionale scoperta impressiona gli archeologi che seguono il lavoro da più di un anno. Nella mattinata il laser mette in luce il volto severo e ben riconoscibile di san Paolo, tra i più antichi e i più definiti che ci abbia consegnato la civiltà figurativa dell’antichità cristiana. Anzi, per le sue caratteristiche può essere considerato la più antica icona dell’apostolo finora conosciuta.

Il volto, circondato da uno sfavillante clipeo giallo oro su rosso vivo, emoziona per il suo graffiante espressionismo e appare come un’icona forte ed eloquente dell’Apostolo delle genti, un volto d’epoca, che ci accompagna verso quella missione che la Chiesa di Roma, tra il IV e il V secolo, affida alla figura di Paolo nella conversione al cristianesimo degli ultimi pagani.

Altre immagini di san Paolo erano note nelle catacombe e nei sarcofagi romani, ma il busto appena scoperto meraviglia per la sua suggestiva espressione e ha lasciato senza fiato i restauratori, che hanno interrotto subito il loro lavoro, come intimiditi da quello sguardo antichissimo, da quella fisionomia che spuntando dall’oscurità della catacomba emoziona e folgora chi la contempla. Il giorno della scoperta, nonostante l’avvicinarsi del fine settimana, i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra sono accorsi immediatamente presso il sito archeologico e hanno potuto verificare la straordinaria importanza della scoperta. Per questo, anche se il restauro è in corso, hanno deciso di anticipare la notizia del rinvenimento.


In questi giorni i restauratori hanno continuato il loro lavoro e hanno meglio evidenziato i tratti del busto dell’apostolo, ma hanno anche effettuato altre importantissime scoperte. E altre se ne prevedono per le prossime ore e per i mesi a venire. Il tondo di Paolo, infatti, si colloca nella volta del cubicolo, dove attorno al clipeo campito del Cristo Buon Pastore sono sistemati quattro altri tondi che accolgono, a loro volta, i busti di quattro personaggi. Tra questi sono ben riconoscibili quelli relativi a Paolo, appena scoperto, e a Pietro, riapparso proprio in queste ultime ore, mentre gli altri due, pur caratterizzati nell’età e nella fisionomia, potrebbero riferirsi ad altrettanti apostoli, ovvero a due santi intercessori o, infine, a due defunti.

Il volto più espressivo ed emozionante è sicuramente quello di Paolo, situato nel tondo posto a sinistra, rispetto all’ingresso. Dal momento che l’imago clipeata rappresenta una raffigurazione devozionale scelta dalla famiglia dei defunti per proteggere il loro cubicolo, il busto di Paolo può essere considerato la più antica icona dell’apostolo finora rinvenuta, nel senso che dal livello evocativo si passa a quello del culto.
L’immagine e gli altri clipei sono incastonati in un complesso e variopinto cassettonato, come se si volesse emulare il soffitto di un prestigioso edificio di culto.

Non dimentichiamo che a poche centinaia di metri si innalzava la celebre basilica dedicata nello scorcio del IV secolo all’Apostolo delle genti dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio, costruita sulla memoria apostolica, già monumentalizzata nel 324 da Papa Silvestro e voluta da Costantino. La basilica dei tre imperatori – come si diceva – mostrava forme più ampie, decorazioni più sontuose e fu portata a termine dal figlio di Teodosio, Onorio (395-423), come suggerisce il distico inserito nell’arco trionfale (Teodosius coepit, perfecit Honorius aulam + doctoris mundi sacratam corpore Pauli). Lungo la curva del medesimo arco correva, poi, un’altra iscrizione, che dava conto dei lavori intrapresi da Papa Leone Magno (440-461) al tempo di Galla Placidia, in seguito ai danneggiamenti dovuti a dei fulmini o a un terremoto avvenuto tra il 442 e il 443 (Placidiae pia mens operis decus homne paterni / gaudet pontificis studio splendere Leonis).

Ai lavori commissionati da Leone Magno dobbiamo riferire il programma decorativo che interessava l’intero edificio di culto che, come è noto, fu distrutto dal terribile incendio scoppiato nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 1823. Le riproduzioni dei disegnatori del passato – primi fra tutti quelli fatti eseguire dal cardinale Francesco Barberini nel 1635 e quelli preparati, alla fine del Settecento, da Seroux d’Agincourt – assieme ad alcuni esigui lacerti musivi relativi all’arco trionfale e alla serie dei ritratti dei Pontefici realizzati in pittura, ci permettono di ricostruire il programma decorativo della basilica monumentale sorta sulla tomba dell’Apostolo delle genti.

Ebbene, tornando al nostro cubicolo e alle scoperte di questi giorni, possiamo constatare alcune suggestive assonanze tra il progetto iconografico dell’ambiente funerario di Santa Tecla e quello, ovviamente più complesso e raffinato, della basilica di San Paolo. La serie di busti campiti nella volta del nostro cubicolo ricorda, infatti, quella che si snodava lungo le navate dell’edificio di culto della via Ostiense; il cassettonato dipinto nel soffitto può emulare quello che doveva decorare la navata centrale della basilica; i temi biblici e apocrifi che decorano le pareti e gli arcosoli dell’ambiente catacombale, già noti dalle scoperte degli ultimi mesi, possono rammentare, nell’impostazione e nella dislocazione, i quadri dipinti lungo le navate di San Paolo fuori le mura; il maestoso collegio apostolico o il Cristo in cattedra, dipinti nel vestibolo del cubicolo, possono alludere al tema teofanico che poteva svilupparsi nell’abside perduta della basilica, come pare suggerire l’atmosfera apocalittica e sospesa dell’arco trionfale, dove erano sistemati i quattro viventi, i vegliardi dell’Apocalisse, il volto nimbato e radiato del Cristo tra angeli e, ancora, i principi degli apostoli.

A questo punto, si potrebbe pensare che il nucleo del programma decorativo della basilica ostiense, così come si definisce al tempo di Leone Magno, poteva essere già, in parte, realizzato nella basilica dei tre imperatori e che il cubicolo di Santa Tecla, commissionato da una personalità importante della società romana della fine del IV secolo – forse un nobile aristocratico, forse un ecclesiastico – riproponga, in scala minore, il progetto figurativo pensato per l’edificio di culto della via Ostiense.
Il volto di Paolo – che tanto ha emozionato i primi visitatori – presenta i caratteri fisionomici tipici del filosofo di plotiniana memoria, con un ovale asciutto, desinente nella scura barba a punta, il naso pronunciato, gli occhi maggiorati e fortemente espressivi, le tempie interessate da un’importante calvizie; la fronte attraversata da profonde rughe di atteggiamento. Tutte queste caratteristiche rimandano, in maniera più o meno puntuale, alle scarse notizie relative all’aspetto fisico di san Paolo. Se un veloce passaggio degli Acta Pauli et Theclae definisce l’apostolo piccolo di statura, con la testa calva, le gambe curve, un bel corpo, le sopracciglia congiunte e il naso un po’ sporgente, altri cenni di Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica, VII, 8-4), di Basilio Magno (Epistolae, 360) e Giovanni Crisostomo (Oratio in principes apostolorum, 1) riferiscono solo della bassa statura e del tipo filosofico, mentre Agostino lascia prima intendere che i ritratti di Paolo in circolazione erano pura invenzione iconografica (De Trinitate, 5-8), ma poi riferisce che una certa Marcellina carpocraziana, possedeva, per adorarle, le immagini di Gesù, di Paolo di Omero e di Pitagora (De haeresibus ad Quodvultdeus, 7).

Nelle nuove pitture scoperte nel cubicolo di Santa Tecla, come si diceva, appaiono ambedue i volti dei principi degli apostoli, definiti in tutte le peculiarità fisionomiche, che li caratterizzeranno nella civiltà figurativa tardoantica, bizantina e medievale e che giungeranno sino ai nostri giorni. Se, infatti, il volto di Pietro – purtroppo molto rovinato dal punto di vista conservativo – si impronta a una solidità fisionomica e a una potenza espressiva dai tratti marcati e decisi, anche se adesso poco giudicabili, con capigliatura ricca, candida, aderente al capo, l’ovale ampio, stereometrico, la barba corta e mossa, quello di Paolo sembra ricavato da un contrappunto e si propone con le sembianze di un pensoso e ispirato filosofo, dall’espressione esangue, sospesa tra inquietudine e serenità.

La compresenza di Pietro e Paolo nel soffitto del nostro cubicolo, seppure arricchita dalle altre due immagini per ora ingiudicabili, ci accompagna verso quello slogan della concordia apostolorum, ideato quale elemento determinante dell’ambizioso progetto politico-religioso della renovatio Urbis, pensato simultaneamente dalla propaganda imperiale e da quella pontificia, nell’ultimo scorcio del IV secolo e nei primi decenni del seguente, in perfetta sintonia con la cronologia dei nostri affreschi.
Qui, come si diceva, la vecchia tematica paleocristiana si affianca a un nuovo repertorio, che si apre, ad esempio, ad accogliere la storia del miraculum fontis, che ha come protagonista l’apostolo Pietro, mentre disseta, con un miracolo, i suoi carcerieri, secondo quanto raccontano gli scritti apocrifi. La scena, dipinta nella parete d’ingresso, proprio in corrispondenza con il busto di Paolo, mostra Pietro dal volto ben definito e simile a quello ripetuto nella volta, mentre con un gesto solenne, fa scaturire l’acqua dalla roccia per dissetare un carceriere, dal copricapo e dalla tunichetta tipica dei soldati, che si inchina verso la piccola sorgente.
La compresenza dei principi degli apostoli nel medesimo complesso pittorico vuole ribadire la doppia apostolicità della Chiesa romana, che si affianca e forse vuole sostituire il concetto del primatus Petri, basato sul Vangelo di Matteo (16, 18): Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam.

Il primato petrino viene attutito dalla nuova ideologia della concordia apostolorum a cui si è fatto cenno e che viene teorizzata proprio a fine secolo, in concomitanza con l’esecuzione delle nostre pitture. In questo periodo, sulla scia dell’epigramma damasiano dedicato agli apostoli, che tende a riequilibrare la memoria paolina, congiungendola a quella petrina e in concomitanza con la creazione del manifesto figurativo dell’abbraccio solidale tra Pietro e Paolo, si pronunciano anche i più autorevoli Padri della Chiesa. Primus Petrus apostolus, nec Paulus impar gratia est afferma un inno attribuito ad Ambrogio (De Sancti Petro et Paulo apostolis, PL, 17, 12-53); hic regnant duo apostolorum principes, alter vocatur gentium alter cathedram possidens primam sentenzia Prudenzio (Peristephanon, II, 459); nec Paulus inferior Petro dichiara Ambrogio in maniera più secca e persuasiva (De Spiritu Sancto 2, 156).

In questo motto del De Spiritu Sancto possiamo intravedere tutte le ragioni della riabilitazione e della tematizzazione della figura di Paolo, che assurge a immagine-simbolo di un cristianesimo che voleva farsi largo e penetrare tra gli intellettuali. In questa delicata e ardua conversione degli ultimi pagani, arroccati nelle grandi famiglie e negli ambienti senatoriali romani, la sofisticata figura dell’apostolo dei gentili, il doctor gentium, il vas electionis, il sapiens architectus, il magister scientiae diventa un elemento determinante, tanto che Peter Brown ebbe a definire i cristiani vissuti durante gli ultimi anni del IV secolo e gli inizi del seguente come la “generazione di Paolo”.

Il programma decorativo del cubicolo di Santa Tecla, con la presenza simultanea dei principi degli apostoli, si cala perfettamente in questa atmosfera politico-religiosa, che vede la lotta contro gli ultimi baluardi della resistenza pagana e assurge a traduzione figurata della doppia apostolicità di Roma, una sorta di manifesto, ma anche “un invito alla conversione dei pagani – come osservava Richard Krautheimer – un segnale che i tempi erano maturi per unirsi in una fede, che era stata fondata da Pietro, il pescatore, ma anche da Paolo, l’apostolo dai più alti compiti intellettuali”.

(©L’Osservatore Romano – 28 giugno 2009)

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