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sabato 4 gennaio 2020

San Basilio Magno - Discorso ai Giovani


*In fondo al discorso ho pubblicato il link per scaricare il pdf.


I
Molte sono le ragioni, ragazzi miei, che mi spingono a darvi quei consigli che giudico i migliori e  che  credo  possano  esservi  utili,  nel  caso  li  seguiate. Infatti l’essere arrivato a questa età, l’aver affrontato ormai molte prove e l’aver preso parte abbastanza alle alterne vicende della sorte che tutto insegna, mi hanno reso tanto esperto delle cose umane da poter mostrare la via più sicura a chi da poco si è incamminato lungo il sentiero della vita. Per grado di parentela io vengo subito dopo i vostri genitori, così che non nutro per voi meno affetto di loro. D’altra parte, se non interpreto male i vostri sentimenti, credo che neanche voi, guardando me, sentiate la mancanza dei vostri genitori. Se dunque farete tesoro delle mie parole, sarete al secondo posto della graduatoria di merito stilata da  Esiodo;  altrimenti,  senza  che  sia  io  a  dovervi  dire  qualcosa  di  spiacevole,  basterà  che  vi ricordiate  dei  suoi versi:  «Ottimo  è  colui  che  da  se  stesso  vede  ciò  di  cui  ha  bisogno;  buono  chi segue ciò che gli viene mostrato da altri; ma chi non è capace né dell’una né dell’altra cosa, è del tutto inetto».

Non meravigliatevi poi se a voi, che pur frequentate ogni giorno la scuola e avete familiarità con i  più  illustri  degli  antichi  scrittori  grazie  alle  opere  che  ci  hanno  lasciato,  io  dico  d’averci personalmente  trovato  qualche  cosa  di  davvero  utile.  Io  vengo  a  consigliarvi  appunto  questo:  non bisogna che voi, affidando a questi personaggi una volta per tutte il timone della vostra intelligenza, come  si  fa  con  una  nave,  li  seguiate  dovunque  vi  portino,  ma,  accogliendo  quanto  hanno  di  utile, sappiate  anche  ciò  che  bisogna  lasciai  perdere.  Comincerò  dunque  a  spiegarvi  quali  siano  queste cose e con quali parametri debbano essere valutate.

II

Noi, ragazzi miei, crediamo che la vita dell’uomo in questo mondo non abbia un valore assoluto, né consideriamo o definiamo vero bene ciò che circoscrive la sua utilità entro i limiti di questa vita. Perciò  non  riteniamo  degna  di  essere  desiderata    la  nobiltà  di  nascita    la  forza  fisica  o  la bellezza o la statura del corpo, né gli onori del mondo né il potere e nemmeno ciò che si potrebbe dire  grande  tra  le  cose  umane.  E  neppure  invidiamo  quelli  che  posseggono  tali  beni,  ma  ci spingiamo ben oltre con la speranza e facciamo tutto nella prospettiva di un’altra vita.

Di  conseguenza,  affermiamo  che  bisogna  amare  e  ricercare  con  tutte  le  forze  tutto  ciò  che  ci aiuta  a  raggiungere  una  tale  vita;  quanto  invece  non  ci  orienta  ad  essa  va  trascurato  come  cosa  di nessuna importanza. Come sia poi questa vita e dove e in che modo noi la vivremo, sarebbe troppo lungo  da  spiegare  rispetto  allo  scopo  che  qui  mi  sono  proposto,  e  ci  vorrebbero  interlocutori  più maturi di voi. Per darvi un’idea di ciò che intendo, basterà forse dire solo questo, che, cioè, se uno potesse abbracciare col pensiero e mettere insieme tutta la felicità che c’è stata al mondo da quando gli uomini esistono, scoprirebbe che essa non è paragonabile nemmeno alla più piccola parte di quei beni; anzi, troverebbe che la totalità dei beni di quaggiù è distante per valore dal più piccolo bene di lassù più di quanto l’ombra e il sogno sono lontani dalla realtà. O piuttosto, per usare un  esempio più appropriato, quanto l’anima è sotto ogni aspetto più preziosa del corpo, tanta è l’una vita è differente dall’altra.

A quest’altra vita ci conduce la Parola di Dio con l’insegnamento dei suoi misteri. Ma fin tanto che per l’età non siamo in grado di comprenderne il senso profondo, ci esercitiamo con l’occhio dell’anima su altri libri non del tutto diversi, come su ombre e specchi, imitando quelli che fanno le esercitazioni  militari.  Questi,  una  volta  acquisita  esperienza  nei  movimenti  delle  braccia  e  nella marcia  cadenzata,  da  questo  addestramento  ricavano  poi  profitto  per  le  vere  battaglie.  Dobbiamo anche  noi  credere  di  aver  dinanzi  una  battaglia,  la  più  dura  di  tutte  le  battaglie,  per  la  quale dobbiamo  fare  tutto  e  sforzarci  il  più  possibile per  prepararci  ad  essa;  e  bisogna  consultare  poeti, storici,  oratori  e  tutte  quelle  persone  da  cui  possa  venirci  un  qualche  aiuto  per  il  bene  della  nostra anima.

Come  i  tintori  che,  solo  dopo  aver  preparato  con  trattamenti  particolari  la  stoffa  che  deve ricevere la tintura, vi applicano il colore vivo, il rosso porpora o qualunque altro, così anche noi, se vogliamo che rimanga indelebile in noi l’idea del bene, solo dopo essere stati preparati con gli studi profani, comprenderemo i misteri dei sacri insegnamenti. Così, una volta abituati a guardare il sole riflesso nell’acqua, potremo fissare il nostro sguardo direttamente nella luce.

III

Se dunque tra le lettere profane e quelle sacre c’è qualche affinità, il conoscerle entrambe ci sarà senz’altro utile; in caso contrario, il metterle a confronto e capirne la differenza servirà non poco a confermarci  nella  scelta  migliore.  Ma  a  che  cosa  potremo  paragonare  i  due  insegnamenti  per farcene un’immagine adeguata? Come una pianta ha sì per suo proprio carattere quello di caricarsi di frutti nella  giusta stagione, ma porta anche come ornamento le foglie  che stormiscono sui rami, così anche l’anima, sebbene il suo frutto caratteristico sia la verità, non è sconveniente che si circondi di sapienza profana come di foglie che diano al frutto riparo e un aspetto piacevole. Si dice del resto che il grande Mosè, così famoso nel mondo per la sua saggezza, solo dopo aver esercitato la mente nelle scienze degli Egiziani, si dette alla contemplazione dell’Essere. E come lui, ma  in epoca  più  recente,  dicono  che  il  saggio  Daniele  prima  abbia  imparato  a  Babilonia  la  sapienza  dei Caldei e si sia poi dedicato allo studio delle cose divine.

IV

Si  è  già  detto  abbastanza  che  questi  insegnamenti  profani  non  sono  inutili  per  l’anima. Rimarrebbe da dire in che modo voi dobbiate accostarvi ad essi.

Prima di tutto, per  cominciare dai poeti, non bisogna prestare attenzione  indistintamente a tutto quel  che  troviamo  presso  di  loro,  dal  momento  che  alcuni  trattano  argomenti  di  ogni  genere;  ma quando  vi  narrano  le  imprese  o  i  discorsi  di  uomini  virtuosi,  bisogna  amarli  ed  imitarli  e  cercare soprattutto  di  essere  simili  a  loro.  Ma  ogni  qualvolta  passano  a  rappresentare  uomini  malvagi, bisogna  rifuggire  queste  letture,  tappandoci  le  orecchie  non meno  di  quanto  i  poeti  dicono  che Ulisse rifuggì il canto delle Sirene. Infatti, l’abitudine ai discorsi cattivi è come una via verso le azioni.  Bisogna  pertanto  custodire  l’anima  con  ogni  cura,  affinché  attraverso  la  dolcezza  delle parole non assumiamo, senza accorgercene, qualcosa di deleterio, come chi insieme al miele beve i veleni.

Dunque  non  loderemo  i  poeti  quando  rappresentano  persone  che  insultano  o  dicono  scurrilità  o amoreggiano  o  si  ubriacano,    quando  riducono  la  felicità  ad  una  tavola  imbandita  e  a  canti dissoluti.  E  ancor  meno  daremo  loro  ascolto  quando  trattano  dei  loro  dei,  e  soprattutto  quando  ne parlano come se fossero molti e discordi tra loro. Presso di loro, infatti, il fratello è in contrasto col fratello, il padre con i figli e c’è guerra implacabile tra figli e genitori. Lasceremo poi agli attori gli adulteri  degli  dei,  i  loro  amori  ed  accoppiamenti  alla  luce  del  giorno,  e  soprattutto  quelli  del  loro capicoro,  ossia  del  sommo  Giove,  come  lo  chiamano,  del  quale  si  raccontano  cose  che se  si dicessero degli animali farebbero comunque arrossire. Lo stesso devo dire dei prosatori soprattutto quando scrivono per sedurre gli uditori. Degli oratori poi non imiteremo l’arte volta all’inganno. Né nei tribunali né in altra circostanza, infatti, ci è permessa la menzogna, a noi che abbiamo scelto la via  diritta  e  vera  della  vita  e  a  cui  la  legge  vieta  di  intentare  processi.  Ma  piuttosto  sceglieremo quegli scritti nei quali è lodata la virtù o condannato il vizio.

Come dai fiori le altre creature ricavano solo il piacere del profumo o del colore, mentre le api vi attingono anche il miele, allo stesso modo da questi scritti, quanti non vi cercano soltanto il fascino e la dolcezza, possono  ricavare  anche un qualche  giovamento per l’anima. Dobbiamo appunto accostarci a tali opere seguendo in tutto l’esempio delle api. Esse non si posano indistintamente su tutti i fiori né cercano di portar via tutto da quelli sui quali si posano; ma prendendo soltanto quanto è necessario al loro lavoro, lasciano perdere il resto. E anche noi, se siamo saggi, una volta attinto da  quelle  opere  quanto  ci  è  utile  ed  è  conforme  alla  verità,  il  resto  lo  trascureremo.  E  come  nel cogliere una rosa evitiamo le spine, così nel cogliere in questi libri quanto ci è utile, staremo attenti a ciò che è dannoso.

Come  prima  cosa,  dunque,  bisogna  esaminare  bene  ciascun  aspetto  di  tali  studi  e  adeguarli  al nostro scopo, sistemando, secondo il proverbio dorico, la pietra a fil di piombo.

V

E siccome alla nostra vita, quella vera, dobbiamo tendere per mezzo della virtù ed è a questa che molti elogi sono stati fatti dai poeti, dai prosatori e ancor più dai filosofi, bisogna dedicarsi in modo particolare a questo genere di scritti. Non è infatti piccolo vantaggio che nell’animo dei ragazzi si crei  una  certa  familiarità  e  dimestichezza  con  la  virtù,  poiché  gli  insegnamenti  ditali  scrittori  si imprimono  nel  profondo  del  loro  animo  ancora  tenero  e  sono  di  per    indelebili.  Con  quale  altra intenzione  pensiamo  che  Esiodo  abbia  scritto  questi  versi,  che  tutti  recitano,  se  non  per  esortare  i giovani alla virtù? «La via che conduce alla virtù è all’inizio aspra, difficile, piena di molto sudore e fatica e malagevole».

Perciò  non  è  da  tutti  accedervi,  a  causa  della  sua  ripidità,  o  giungere  facilmente alla  cima,  una volta intrapresa la salita. Però chi è arrivato in alto può vedere come essa sia piana e bella, come sia facile, agevole e migliore dell’altra che conduce al vizio e che, come disse questo stesso poeta, è affollata  per  la  sua  stessa  accessibilità. A me infatti sembra che Esiodo per nessun’altra ragione abbia scritto queste cose se non per esortarci alla virtù, per invitare tutti ad essere virtuosi e perché, lasciandoci scoraggiare  dalle difficoltà, non desistiamo dal raggiungere la meta. E naturalmente se anche  qualche  altro  ha  elogiato  la  virtù  in  modo  analogo,  dobbiamo  accogliere  le  sue  parole,  dal momento che ci conducono allo stesso fine.

Io ho sentito dire da una persona abile nell’interpretare il pensiero del poeta che tutta la poesia di Omero  è  un  elogio  della  virtù  e  che  tutto  in  lui,  eccetto  quanto  è  marginale,  porta  a  questo. Emblematici quei versi in cui parla del condottiero dei Cefalleni salvato nudo dal naufragio: prima infatti  dice  che  la  principessa  solo  al  vederlo  provò  un  senso  di  rispetto,  tanto  era  lontano  dal doversi vergognare di apparire nudo, proprio perché il poeta lo rappresentò adorno di virtù a mo’ di vesti; poi anche dagli altri Feaci fu stimato tanto degno che, abbandonando la mollezza nella quale vivevano, lo ammiravano e lo invidiavano tutti; e nessuno dei Feaci avrebbe allora desiderato essere altro che Ulisse, e per giunta Ulisse scampato da un naufragio.

In questi versi quell’interprete del pensiero del poeta sosteneva che Omero dice quasi gridando: O uomini, dovete preoccuparvi della virtù, che sopravvive al naufragio e farà apparire il naufrago, restituito nudo alla spiaggia, più onorevole dei fortunati Feaci. Ed è proprio così! E mentre gli altri beni non appartengono al proprietario più che a qualsiasi altra persona, passando dall’uno all’altro come nel gioco dei dadi, la virtù è l’unico possesso che non ci può essere tolto e rimane durante la vita  e  anche  dopo  la  morte.  Appunto  per  questo  anche  Solone  mi  pare  abbia  detto  ai  ricchi:  «Noi non  scambieremo  la  nostra  virtù  con  la  loro  ricchezza,  poiché  quella  è  stabile,  le  ricchezze  degli uomini invece passano dall’uno all’altro».

Un analogo concetto esprimono quei versi di Teognide in cui dice che Dio, chiunque egli sia, fa pendere  la  bilancia  delle  sorti  umane  ora da una parte ora da un’altra: «Ora sono ricchi, ora non possiedono nulla».

Ed  anche  il  sofista  Prodico  di  Ceo  filosofeggia  con  parole  simili  in  qualcuno  dei  suoi  scritti riguardo  al  vizio  e  alla  virtù:  anche  a  lui  dobbiamo  volgere  la  nostra  attenzione,  perché  non  è  un autore da trascurare. Questo è pressappoco il ragionamento di Prodico, per quel che ricordo del suo pensiero; le parole precise mi sfuggono, so solo che, semplicemente e senza metrica, raccontava che quando  Eracle  era  giovanissimo,  più  o  meno  della  vostra  età,  mentre  stava  decidendo  quale  delle due vie percorrere, o quella che attraverso la fatica conduce alla virtù o l’altra ben più comoda, gli si presentarono  due  donne:  erano  la  Virtù  e  il  Vizio.  Esse,  pur  tacendo,  lasciavano  immediatamente intravedere  dal  loro  atteggiamento  la  differenza.  L’una  infatti,  ricercatamente  acconciata  per apparire  bella,  straripava  di  sensualità  e  si  trascinava  dietro  tutto  lo  sciame  dei  piaceri;  ostentava tutto  ciò  e,  promettendo  ancor  di  più,  cercava  di  attrarre a sé Eracle. L’altra invece era magra e smorta, austera nello sguardo, e diceva cose del tutto diverse: non prometteva nulla di voluttuoso né di  dolce,  ma  sudori  senza  fine  e  fatiche  e  pericoli,  per  terra  e  per  mare;  premio  di  tutto  ciò  era divenire dio, come diceva il racconto di Prodico; e appunto questa Eracle finì per seguire.

VI

E quasi tutti coloro che si sono guadagnati una certa fama per la loro saggezza, chi più chi meno, ciascuno secondo le proprie forze, hanno tessuto nei loro scritti l’elogio  della  virtù.  Questi  noi dobbiamo ascoltare, cercando di tradurre nella nostra vita le loro parole. Perché colui che conferma con  i  fatti  quella  filosofia  che  altri  predicano  solo  a  parole,  «è  il  solo  saggio,  gli  altri  sono  ombre che si agitano».

Il che mi fa venire in mente il paragone di un pittore che rappresentasse un uomo di straordinaria bellezza, e quest’uomo fosse in realtà tale quale egli l’ha riprodotto nel suo ritratto. Poiché lodare splendidamente la virtù in pubblico e fare lunghi discorsi suquesto tema, e poi in privato stimare il piacere più della temperanza e il guadagno più della giustizia, è cosa, direi, che si addice  ad attori che  calcano  la  scena,  i  quali  spesso  recitano  il  ruolo  di  re  e  di  potenti,  mentre  non  sono    re  né potenti  e  forse  neppure  uomini  liberi.  Un  musicista  del  resto  non  accetterebbe  di  avere  una  lira scordata    il  direttore  di  un  coro  dei  coristi  che  non  fossero  perfettamente  intonati:  e  ci  potrà invece essere qualcuno che sia in disarmonia con se stesso e che conduca una vita non coerente con le  sue  parole?  Ma  dirà  con  Euripide  che  «la  lingua  ha  giurato,  ma  il  cuore  ne  è  rimasto  esente»  e cercherà di sembrare onesto invece di esserlo? Ma questo è il massimo della disonestà, se dobbiamo credere a Platone, ossia l’apparire onesti senza esserlo!

VII

Accogliamo, pertanto, quelle opere che contengono insegnamenti sulla virtù. E poiché le azioni virtuose  degli  antichi  sono  giunte  a  noi  o  per  tradizione diretta  oppure  conservate  negli  scritti  dei poeti o dei prosatori, non dobbiamo trascurare l’utile che possiamo trarne.

Per esempio, un individuo della piazza insultava Pericle, senza che questi gli desse importanza; e così per tutto il giorno continuarono l’uno a ricoprirlo d’insulti senza tregua, l’altro a non farci caso. Scesa ormai la sera e fattosi buio, quando quello si decise a malincuore ad andarsene, Pericle lo fece accompagnare con una torcia per non sprecare neanche quell’occasione di esercitare la virtù.

Un  altro  esempio.  Un  tale,  infuriato  contro  Euclide  di  Megara,  lo  minacciò  giurando  che l’avrebbe ucciso; di rimando, l’altro giurò che l’avrebbe calmato e fatto desistere dalla collera. Quanto sarebbe bene richiamare alla memoria qualcuno di questi esempi quando si è presi dall’ira! Non bisogna infatti dar retta a quella tragedia che dice: «Basta lo sdegno ad armare la mano contro i nemici».

La  cosa  migliore  sarebbe  non  lasciarsi  affatto  trasportare  dall’ira  e,  se  ciò  non  è  facile, perlomeno non permettere di andar troppo oltre, usando come freno la ragione.

Ma  torniamo  ad  occuparci  di  esempi  di  virtù.  Un  tizio,  avventatosi  contro  Socrate,  il  figlio  di Sofronisco, prese a colpirlo senza risparmio in pieno viso. Socrate non oppose resistenza, ma lasciò che il forsennato sfogasse tutta la sua rabbia, al punto che il viso gli diventò tutto gonfio dai pugni. Quando poi quello smise di picchiarlo, si dice che Socrate non fece altro che scriversi sulla fronte: Opera del tale, proprio come uno scultore firma la sua statua. E questa fu la sua vendetta.

Credo  sia  bene  che  i  ragazzi  della  vostra  età  imitino  questi  esempi,  che  sostanzialmente concordano  con  i  nostri  principi.  Il  comportamento  di  Socrate,  infatti,  è  molto  simile  al  nostro comandamento,  che  ci  prescrive di porgere l’altra guancia a chi ci percuote. Altro che vendicarsi! L’esempio di Pericle e di Euclide è invece in sintonia con quell’altro comandamento che insegna a sopportare chi ci perseguita e a tollerare pazientemente la loro ira, e anche conquello che ci esorta a pregare  per  il  bene  dei  nemici,  e  non  a  maledirli.  E  così  chi  si  sarà  formato  su  questi  esempi,  non riterrà impossibile attuare gli insegnamenti del Vangelo.

Non vorrei tralasciare neppure l’aneddoto di Alessandro, il quale, dopo aver fatto prigioniere le figlie  di  Dario,  pur  famose  per  la  loro  straordinaria  bellezza,  non  si  degnò  neppure  di  vederle, poiché  giudicava  vergognoso  che  chi  aveva  vinto  degli  uomini  si  lasciasse  vincere  da  donne. Ebbene, questo esempio coincide col precetto evangelico, secondo cui: «Chi ha guardato una donna per desiderio, anche se di fatto non ha commesso adulterio, solo per aver accolto il desiderio nel suo cuore, non è esente da colpa».

Anche l’esempio di Clinia, uno dei discepoli di Pitagora, è difficile credere che si accordi con i princìpi cristiani per puro caso e non invece per volontà di emulazione. Che cosa fece? Costui, pur essendogli  possibile  evitare  una  multa  di  tre  talenti  con  un  semplice  giuramento,  preferì  pagare anziché   giurare,   anche   se   avrebbe   giurato   il   vero.   Pare   quasi   che   avesse   già   udito   quel comandamento che ci proibisce di giurare.

VIII

Ma  torniamo  a  quello  che  dicevo  all’inizio,  che  cioè  non  bisogna  accogliere  tutto indistintamente, ma solo quanto torna utile. Sarebbe infatti vergognoso evitare i cibi dannosi e non fare invece alcun conto delle letture che nutrono la nostra anima, ingurgitando tutto ciò che ci capita come  un  torrente  in  piena.  Che  senso  avrebbe  che,  mentre  un  timoniere  non  abbandona  la  nave  al capriccio  dei  venti ma  la  dirige  verso  il  porto,  un  arciere  tenta  di  colpire  il  segno,  un  fabbro  o  un falegname cercano di realizzare la loro arte, noi invece restassimo indietro a tali artigiani nel saper riconoscere lo scopo del  nostro agire? Non è infatti possibile che il lavoro  degli  artigiani abbia un fine,  mentre  la  vita  umana  non  abbia  uno  scopo,  in  vista  del  quale  tutto deve  fare  e  dire  colui  che non  vuole  assomigliare  agli  animali  privi  di  ragione.  Altrimenti,  saremmo  simili  a  navi  senza ancora, perché nessun  criterio razionale presiederebbe alla guida dell’anima, trasportati alla deriva qua e là lungo la vita.

È un po’ come avviene nelle gare sportive o,  se vuoi, in quelle musicali, dove  gli esercizi vengono fatti appunto in funzione di quelle gare per le quali ci sono in palio dei premi; e a nessuno che  si  eserciti  nella  lotta  o  nel  pancrazio  interessa  suonare  la  cetra  o  il  flauto.  Non  faceva  di  certo così Polidamante, ma, prima di partecipare ai giochi olimpici, si allenava fermando i carri in corsa e aumentava così la sua forza. Anche Milone non mollava la presa dal proprio scudo, che aveva per di più unto d’olio, ma resisteva agli urti quasi fosse una statua saldata col piombo. Insomma, tali esercizi servivano loro da preparazione alle gare. Se costoro, trascurando la polvere e le palestre, si fossero invece dedicati alle musiche dei cantori frigi Marsia e Olimpo, avrebbero ottenuto premi e gloria o piuttosto non avrebbero evitato una figuraccia nelle gare atletiche?

D’altro canto, nemmeno Timoteo perdeva il suo tempo  nelle  palestre,  trascurando  la  musica. Altrimenti non gli sarebbe stato possibile eccellere fra tutti nella musica, dove raggiunse un livello tale da riuscire, a suo piacimento, ad esaltare  l’anima con un’armonia grave e austera per poi calmarla e intenerirla con una tonalità più morbida. Si racconta ad esempio che, mentre suonava il flauto  nel  modo  frigio  davanti  ad  Alessandro,  lo  eccitò  al  punto  che  nel  bel  mezzo  del  banchetto questi corse alle armi e poi, addolcendo il tono, lo riportò tra i commensali. Tanta è l’efficacia che procura l’esercizio, sia nella musica sia nelle gare sportive, per il raggiungimento dello scopo!

Siccome ho parlato di premi e di atleti, vorrei ricordare che questi uomini, dopo aver sostenuto prove  su  prove,  aver  in  mille  modi accresciuto  la  loro  forza,  aver  versato  tanto  sudore  negli allenamenti  e  ricevuto  tanti  colpi  a  scuola  di  ginnastica  e  dopo  essersi  scelto  come  regime  di  vita non  quello  più  comodo, ma  quello  prescritto  dagli  istruttori; insomma,  per  non  farla  troppo  lunga, comportandosi in modo che tutta la vita prima della gara non sia altro che un esercizio preparatorio ad essa, solo allora affrontano lo stadio e si sottopongono ad ogni fatica e pericolo per conquistare una corona d’ulivo o di apio o d’altro del genere ed esser proclamati vincitori dall’araldo.

E  noi,  che  per  la  gara  della  vita  abbiamo  in  palio  premi  meravigliosi  per  quantità  e  grandezza tanto  che  è  impossibile  descriverli  a  parole,  pensiamo  di  riuscire  ad  afferrarli  con  una  mano, dormendo fra due guanciali e vivendo in tutta tranquillità? Ma allora nella vita avrebbe più valore la pigrizia;  e  il  famoso  Sardanapalo  otterrebbe  il  primo  posto  tra  gli  uomini  felici  o  anche,  se  vuoi, quel Margite, che Omero –se proprio di Omero è l’opera –disse non aver mai né arato né zappato né  fatto  alcunché  di  importante  nella  vita!  Non  è  vero  piuttosto  il  detto  di  Pittaco  secondo  cui  è difficile essere virtuosi? Infatti, solo dopo esser passati attraverso molte prove, potremmo, e pure a stento, ottenere quei beni, che, come dicevo, non hanno paragone in questo mondo.

Perciò non dobbiamo darci all’ozio né barattare grandi speranze col benessere di un momento, se non  vogliamo  attirarci  la  vergogna  e  subire  castighi,  non  tanto  quaggiù  tra  gli  uomini  (per  quanto anche questo non sarebbe di poco conto per chi ha un po’ di senno), quanto in quei luoghi di pena, sotto terra o in qualunque altro punto dell’universo si trovino. Chi dunque involontariamente viene meno al proprio dovere, potrà anche ricevere da Dio un qualche perdono; ma chi deliberatamente ha scelto il male, nessuna scusa potrà sottrarlo ad una pena ben più severa.

IX

Che faremo allora? domanderà qualcuno. Cos’altro se non avere cura dell’anima e trascurare tutto  il  resto?  Non  dobbiamo  pertanto  essere  schiavi  del corpo  se  non  quanto  è  strettamente necessario. Bisogna invece dare all’anima il meglio, liberandola, attraverso una tensione morale, da quella  specie  di  prigione  in  cui  si  trova  per  la  comunanza  con  le  passioni  del  corpo  e,  al  tempo stesso, cercando di rendere il corpo più forte delle stesse passioni. Diamo sì al ventre il necessario, ma non quanto c’è di più piacevole, come fanno coloro che pensano solo a cercare organizzatori di banchetti  e  cuochi,  setacciando  tutta  la  terra  e  il  mare,  come  se  dovessero  pagare  un  tributo  ad  un duro padrone.  Fanno pena per questa loro frenesia,  giacché non soffrono  meno di coloro  che sono condannati all’inferno: è come cardare lana nel fuoco, portare acqua con un colabrodo e versarla in un recipiente forato, senza vedere un termine a tali fatiche. 

Aver poi eccessiva cura dei propri capelli e dell’abbigliamento è, come diceva Diogene, o da infelici o da delinquenti. E dico che dei ragazzi come voi dovrebbero ritenere vergognoso essere ed avere  la  nomea  di  bellimbusti  esattamente  come  prostituirsi  o  insidiare  le  nozze  altrui.  Che differenza infatti potrebbe mai esserci, almeno per chi ha buon senso, tra l’indossare un abito di lusso  o  portare  un  cappotto  di  scarsa  qualità,  purché  non  gli  manchi  qualcosa  che  lo  protegga  dal freddo e dal caldo? Così, anche per le altre cose, non bisogna procurarsi niente oltre il necessario né occuparsi del corpo più di quanto lo richieda il bene dell’anima. Infatti, per un uomo, che sia veramente  degno  di  questo  nome,  essere  un  vanesio  tutto  dedito all’aspetto fisico non è meno vergognoso che abbandonarsi senza dignità a qualsiasi altra passione.

In effetti, far di tutto affinché il  corpo  goda del  maggior benessere possibile è tipico di chi non conosce    stesso  e  non  comprende  quella  saggia  massima, secondo cui l’uomo non è quel che appare, ma occorre una saggezza superiore, in virtù della quale ciascuno di noi possa conoscere chi mai  sia.  E  a  chi  non  ha  reso  sgombra  la  propria  mente  raggiungere  questa  autocoscienza  è  più difficile che fissare il sole a chi è malato agli occhi. La purificazione dell’anima, poi, per dirvela in poche parole ma in modo esauriente, consiste nel disprezzare i piaceri dei sensi: non soddisfare gli occhi  con  le  vuote  esibizioni  degli  illusionisti  oppure  con  spettacoli  di corpi  traboccanti  di sensualità e non riempirsi le orecchie di una musica che ti rovina l’anima. Da una musica del genere infatti sono solite derivare passioni meschine e degradanti.

Noi dobbiamo cercare invece quell’altro genere di musica, che è migliore e  che  porta  ad  una condizione  migliore,  quella  cioè  usata  da  David,  il  poeta  dei  canti  sacri,  per  placare,  a  quel  che dicono,  la  follia  del  re.  Raccontano  che  anche  Pitagora,  imbattutosi  in  un’allegra  comitiva  di ubriachi, chiese al flautista che li guidava di cambiare musica e di intonare il modo dorico: a quella melodia  tornarono  in    al  punto  che,  buttate  via  le  corone,  se  ne  ritornarono  a  casa  pieni  di vergogna.  Altri  invece  al  suono  del  flauto  vanno  in  delirio  come  dei  coribanti  o  delle  baccanti. Tanta è la differenza tra l’ascoltare una musica sana ed una cattiva! Perciò dovete evitare la musica che oggi è di moda proprio come quanto c’è di più vergognoso al mondo.

Quanto poi a spruzzare nell’aria profumi di ogni tipo che danno piacere all’odorato e a spalmarsi di  creme,  mi  vergogno  anche  solo  di  proibirvelo.  Che  cosa  poi  si  potrebbe  dire  sul  fatto  che  non bisogna  cercare i piaceri del tatto e  del  gusto, se  non che questi costringono chi li ricerca a vivere come animali, dediti come sono al ventre e a quel che c’è più giù?

In  una  parola,  chi  non  vuole  sprofondare  nei  piaceri  sensuali  come  nel  fango,  non  deve preoccuparsi  del  corpo  o  averne  cura  solo  in  quanto,  come  dice  Platone,  ci    una  mano  per acquistare la sapienza. Analogo è il pensiero di Paolo, il quale ci ammonisce che non bisogna avere alcuna cura del corpo per non alimentare le passioni. Che differenza c’è tra chi si preoccupa del benessere del corpo senza avere alcuna stima dell’anima che pure ne è padrona, e chi si cura degli strumenti senza occuparsi per niente dell’arte che si esprime con essi? Occorre al contrario frenare il corpo, tenerne a bada gli assalti come quelli di una belva e usare la ragione come una frusta per placare i tumulti che da esso arrivano all’anima; e non, allentando ogni  freno  del  piacere,  lasciare che la ragione ne sia travolta, come un auriga trascinato dalla furia di cavalli sbrigliati.

Anche  di  Pitagora  dovete  ricordarvi,  il  quale,  notando  che  uno  dei  suoi  discepoli  con  la ginnastica  e  con  la  buona  tavola  ingrassava  troppo,  gli  disse:  «Allora,  quando  la  smetterai  di renderti  il  carcere  più  duro?».  Proprio  per  questo  dicono  che  anche  Platone,  prevedendo  il  danno che poteva derivare dal corpo, scelse a bella posta l’Accademia, luogo insalubre dell’Attica, per inibire la troppa floridezza del fisico come si fa con l’eccessivo rigoglio delle viti. Ed io stesso ho sentito  dei  medici  dire  che  il  troppo  benessere  è  pericoloso.  Poiché  dunque  la  cura  eccessiva  del corpo è dannosa al corpo stesso e per di più è d’impaccio all’anima,  è  chiaramente  una  follia assoggettarsi ad esso e rendersene schiavi. Se invece ci abituassimo a ridimensionarlo, nessuna altra cosa  al  mondo  sarebbe  in  grado  di  attrarci.  A  che  potranno  ancora  servire  infatti  le  ricchezze,  una volta  disprezzati  i  piaceri  del  corpo?  Francamente  non  saprei,  a  meno  che  non  procuri  un  qualche piacere far la guardia a tesori nascosti, come fanno i draghi nelle fiabe.

Chi  è  stato  educato  a  rapportarsi  a  queste  cose  con  lo  spirito  di  una  persona  libera,  sarà  ben lontano dallo scegliere di fare, nelle parole e nei  fatti, qualche cosa di basso e vergognoso. Poiché tutto  ciò  che  va  oltre  la  necessità –fossero  anche  le  pepite  della  Lidia  o  il  frutto  delle  formiche aurifere –,  tanto  più  costui  lo  disprezzerà,  quanto  meno  ne  avrà bisogno.  E  determinerà  lo  stesso bisogno  in  base  alle  esigenze  della  natura,  e  non  secondo  i  piaceri.  Quelli  che  invece  eccedono  i limiti  del  necessario,  analogamente  a  quanti  scivolano  lungo  un  pendio  non  avendo  alcun  punto d’appoggio, non smettono mai di  correre  a  precipizio,  ma  quanto  più  accumulano,  di  altrettanto hanno bisogno o anche di più per il soddisfacimento dei loro piaceri, secondo quanto dice Solone, figlio di Esecestide: «Non esiste per gli uomini un termine stabilito alla ricchezza».

Su questo punto ci fa da maestro anche Teognide, quando dice: «Non amo arricchirmi né me lo auguro, ma mi sia concesso di vivere di poche cose e senza malanni».

Io  ammiro  anche  in  Diogene  il  disprezzo  totale  delle  cose  umane:  egli  si  dimostrò  più  ricco perfino  del  Gran  Re,  perché  gli  occorreva  molto  meno  di  lui  per  vivere.  E  noi,  se  anche  non abbiamo le ricchezze di un Pizio di Misia e tanti e tanti ettari di terreno e un numero infinito di capi di bestiame tanto da non potersi contare, non saremo comunque soddisfatti?  In realtà io credo  che non  bisogna  desiderare  la  ricchezza  che  non  si  ha;  e  quando  la  si  possiede,  non  bisogna  vantarsi tanto di possederla, quanto di saperla bene usare. A questo proposito calza bene l’aneddoto di Socrate, il quale ad un uomo ricco che si vantava dei propri beni disse che non lo avrebbe ammirato prima  di  aver dimostrato  di  saperne  usare.  E  se  Fidia  e  Policleto  si  fossero vantati  dell’oro  e dell’avorio, con cui fecero l’uno la statua di Zeus agli Elei e l’altro quella di Era agli Argivi,  si sarebbero  resi  ridicoli  nell’andar  fieri  di  una  ricchezza  altrui  anziché  dell’arte  che  aveva  reso quell’oro più bello e più prezioso. E noi, pensando che la virtù umana non basti da sola come ornamento, crediamo di agire con minor ridicolo?

Oppure disprezzeremo  le  ricchezze  e  disdegneremo  i  piaceri  dei  sensi  per  poi  cercare  le adulazioni e le lusinghe, imitando così l’ipocrisia e la scaltrezza della volpe di Archiloco? Ma non c’è nulla che un uomo saggio debba evitare di più che vivere secondo l’opinione altrui e guardare a ciò  che  pensa  la  gente  anziché  farsi  guidare  nella  vita  dalla  retta  ragione.  Cosicché,  anche  se dovesse contraddire il mondo intero, essere disprezzato e correre dei rischi per amore dell’onestà, niente lo distoglierebbe dallo scegliere ciò che ha riconosciuto come giusto.

Chi  non  fosse  così,  in  che  cosa  potrebbe  essere  diverso  da  quel  famoso  mago  egizio,  il  quale, tutte le volte che lo voleva, diventava pianta, animale, fuoco, acqua o qualsiasi altra cosa? Infatti, un individuo  del  genere  ora  loderà  la  giustizia  davanti  a  quanti  la  onorano,  ora  invece  sosterrà  il contrario non appena s’accorge che è l’ingiustizia ad essere tenuta in onore, proprio come fanno gli adulatori. E come il polpo, a quel che si dice, cambia colore a seconda del fondale su cui si trova, così anche lui cambierà parere a seconda delle opinioni delle persone con cui si trova.

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Ma  queste  cose  noi  le  impareremo  in  maniera  più  completa  nella nostra  bibbia;  per  ora accontentiamoci di tracciare un abbozzo della virtù ricavandola dagli insegnamenti profani. Infatti, chi sa accuratamente raccogliere l’utile da ogni cosa fa come i grandi fiumi che arricchiscono la loro portata ricevendo l’acqua dai  vari  affluenti.  Anche  il  detto  di  «aggiungere  il  poco  al  poco», conviene  intenderlo  in  riferimento  non  tanto  all’aumento  delle  ricchezze  quanto  a  qualsiasi conoscenza. Così Biante al figlio, che salpava per l’Egitto e gli domandava che cosa dovesse fare per  renderlo  quanto  mai  felice,  rispose:  Procurati  provviste  per  la  vecchiaia»,  intendendo  per provviste la virtù, pur limitandola entro piccoli confini, in quanto ne riduceva l’utilità ai ristretti termini della vita umana.

Per  conto  mio,  se  anche  mi  si  parlasse  della  vecchiaia  di  Titono  o  di  Argantonio  o  anche  di quella del più longevo al mondo, cioè Matusalemme, il quale si dice che sia vissuto 970 anni, e se anche si calcolasse tutto il tempo dal momento in cui l’uomo cominciò ad esistere, ne riderei come di  un  pensiero  puerile,  considerando  quella  lunga  età  senza  tramonto,  di  cui  non  è  possibile  col pensiero concepire un termine più di quanto non si possa supporre una fine per l’anima immortale. Per  tale  vita  io  vorrei  esortarvi  a  procurarvi  delle  provviste,  smuovendo  ogni  pietra,  come  dice  il proverbio, da cui possa venirvi un qualche aiuto in tal senso.

E se ciò è difficile e richiede fatica, non per questo dobbiamo perderci d’animo; ma, ricordandoci del consiglio di chi disse che ciascuno deve scegliersi il tipo di vita più alto e aspettare che diventi piacevole  con  l’abitudine,  dobbiamo  puntare  al  meglio.  Sarebbe  infatti  vergognoso  trascurare l’occasione presente e rimpiangere poi il passato, quando lamentarsi non servirà più a nulla.

Ebbene, delle cose che considero più importanti  alcune ve le ho dette, ma altre ve ne indicherò nel corso di tutta la vita. E voi, fra le tre tipologie di malati, cercate di non somigliare a quelli che sono incurabili e non fate che la malattia dell’animo sia analoga a quella di chi è malato nel corpo. Infatti,  quelli  che  soffrono  di  lievi  malattie,  vanno  da  soli  dai  medici;  quelli  che  sono  affetti  da malattie  più  gravi,  li  chiamano  a  casa  loro;  quelli  infine  che  sono  presi  da  una  forma  di  delirio assolutamente  incurabile non  li  fanno  nemmeno  entrare  quando  vanno  a  visitarli.  Guardatevi  che questo non succeda ora a voi, respingendo chi viene a darvi i consigli più saggi.




1 commento:

  1. Pdf aggiunto alla lista: https://catenaaureasintesi.blogspot.com/2019/01/pdf-dei-santi-e-sui-santi.html

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